Recensione di Patria di Felice Farina. Una riflessione sociopolitica stantia ed elementare che non aggiunge niente al già noto e non racconta l'Italia di oggi, presentata alle Giornate degli Autori a Venezia 71
Come se non si fosse già parlato abbastanza della più recente (e triste) storia italiana in questa edizione della Mostra, arriva quasi in chiusura delle Giornate degli Autori l’ultima (e la peggiore) riflessione sui nostri decenni bui, con Patria di Felice Farina.
Tratto dal saggio di Enrico Deaglio Patria 1978-2008, in cui il trentennio in questione viene raccontato attraverso 500 storie, insieme ai ricordi personali dell’autore, il film è una mescolanza malriuscita di fiction e documenti, in cui a un tratto spunta, senza nessun senso, anche un inserto di animazione francamente piuttosto brutto.
Salvo (Francesco Pannofino) è un operaio che non si rassegna al licenziamento causa dislocazione dello stabilimento in cui lavora e per protestare sale su una torretta, dove viene raggiunto da un sindacalista (Roberto Citran) e dal custode (Carlo Giuseppe Gabardini). Tra i tre si sviluppa un dialogo, didascalico ai limiti del sopportabile, dove le posizioni ignoranti e destrorse di Salvo (che ha sempre votato Berlusconi perché almeno fa vedere tette e chiappe in tv) si contrappongono alla stucchevole retorica nostalgica del sindacalista innamorato di Enrico Berlinguer (l’uomo più citato a sproposito della storia del cinema italiano, pace all’anima sua). A fare da strambo bilanciere, il custode semicieco e autistico, che cita a memoria leggi e avvenimenti della Prima e della Seconda Repubblica.
Una serie infinita di filmati già visti (non solo in questa edizione del Festival) dove vengono evocati il sequestro Moro, la strage di Capaci, il maxiprocesso, l’ascesa di Berlusconi, Tangentopoli e via battendo e ribattendo sugli stessi punti senza giungere a una conclusione o a una presa di posizione che si discosti anche solo minimamente dall’ovvio. Il contenzioso tra i due opposti è sviluppato con l’ingenuità di una rissa da Bar Sport, che non sembra lasciare spazio a un punto di vista diverso dal berlusconismo più becero o dal sindacalismo più pedante e stantio che parla ancora di "fascisti". Il messaggio, insomma, pare essere che gli uni sono ignoranti e gli altri noiosi e fuori dal tempo: il Paese dunque è condannato.
Irritante la performance di Pannofino, sempre sbraitante e sopra le righe, e francamente incomprensibile la scelta di costruire per il custode un personaggio borderline che viene a un certo punto abbandonato a se stesso: il tutto stemperato (come se ci fosse bisogno di alleggerire ulteriormente i toni) in un insopportabile finale volemosebene dove Don Camillo e Peppone si riconciliano e tutto va per il verso giusto, nella più ipocrita e democristiana (a dispetto delle intenzioni pseudo-polemiche) risoluzione.
Niente viene detto sull’Italia di oggi, sui suoi drammi, sui suoi veri problemi, mentre i ricordi dei fatti di ieri sono solo segreti di Pulcinella, scoperte dell’acqua calda, elencate sciattamente senza nessun tipo di costruzione, peggio di una raccolta di pagine di Wikipedia. La scelta di ambientare il film quasi interamente sulla torretta, poi, vorrebbe essere originale ma non aggiunge niente: fosse stato un dialogo girato con i piedi per terra, nulla sarebbe cambiato. Tanta noia e un po’ di tristezza, per un Paese che vorrebbe imparare dal suo terribile passato ma continua a ricadere, almeno artisticamente, negli stessi errori che l’hanno reso volgare e mediocre.
Voto della redazione:
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