Recensione di Francofonia di Aleksandr Sokurov. Il regista di Arca Russa torna a riflettere sulla guerra tra tempo e arte
Le onde del tempo travolgono e affondano, consegnandoli a un’eternità di oblio, i volti e le anime di chi le ha scolpite con le proprie insignificanti microstorie, non risparmiando nemmeno i padri della civiltà: quei Tolstoj, quei Čechov che con le loro parole hanno nobilitato la pochezza umana. Persino i grandi avvenimenti rischiano di sbiadire nei ricordi sfumati, nelle foto ingiallite e nei filmati tremolanti di tanto tempo fa: solo l’arte, con la sua impassibilità, non viene scalfita dallo scorrimento perpetuo dei giorni, ma rimane, indifferente e quasi crudele nel suo splendore, ad ascoltare le piccole vicende dell’uomo che l’ha creata, prevedendole, già scritte come sono, ma riottosa a disvelarle, incapace di cambiare il destino come in un film di fantascienza.
Questo il presupposto di Francofonia, sorta di mockumentary e atto d’amore verso l’arte e i suoi sacrari, i musei, del sovietico Aleksandr Sokurov, premiato a Venezia nel 2011 con il Leone d’Oro per lo splendido Faust. Continuando a percorrere un solco già tracciato da tempo, che trova la sua massima espressione in Arca Russa (2002), magistrale piano sequenza all’interno delle stanze dell’Ermitage di San Pietroburgo, Sokurov cesella un’altra pagina di riflessioni fantasmatiche sul rapporto tra arte e potere politico e sulla persistenza del bello nei secoli, affidando alla sua voce fuori campo il ruolo di spettro onnisciente e commentando pagine difficili della storia recente.
Nella Parigi dominata dai nazisti, il museo del Louvre viene affidato alle cure del direttore Jacques Jaujard che, inaspettatamente, trova nel tedesco Metternich un prezioso e sensibile alleato per mettere al sicuro i tesori del celeberrimo museo, sottraendoli a razzie e devastazioni. Sokurov sceglie di contaminare immagini di repertorio e toni apertamente documentaristici con inserti di finzione che ipotizzano il formarsi di crescente rapporto di fiducia tra due personaggi opposti e contrari eppure uniti dalla devozione verso l’unica impronta dell’uomo destinata a sopravvivere alla polvere dei secoli: l’arte in tutte le sue espressioni. A legare i due filoni, le divagazioni spettrali affidate a Napoleone, alla prosopopea della Rivoluzione francese e alla voce del regista stesso, che si interroga sulla legittimità del proprio lavoro affidandosi a riflessioni meta cinematografiche.
La perfezione formale e la bellezza incontrastata delle immagini si scontrano però con l’impressione costante che quello di Sokurov sia un soliloquio, come in un proclama poetico non rivolto allo spettatore ma a se stesso, per rassicurarsi, sopraggiunta l’età matura, della persistenza della propria opera e per combattere lo spettro della morte individuale. Ripiegato e autoreferenziale com’è, il film di Sokurov rischia, come molto del suo cinema, di essere ammirato freddamente ma di non essere mai capace di infrangere l’artificio al riparo del quale è costruito, proprio come un quadro nella teca di un museo che lo protegge ma allo stesso tempo allontana dal calore di chi lo osserva.
[Leggi anche: Alla scoperta di Francofonia, nuovo film di Aleksandr Sokurov]
Francofonia finisce così per essere simile alle opere d’arte che celebra: bellissimo e muto, indifferente alle tragedie umane, incapace di intervenire a smuovere il destino dei terrestri e di salvarli dalla devastazione dei tempi. Un’operazione che vorrebbe diventare canto apotropaico contro l’oblio della morte e che rischia, invece, di fare da collante al sigillo di un’urna in cui finisce per giacere, lontano dai cuori, certo cinema d’autore.
Voto della redazione:
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