Recensione di Perez. di Edoardo De Angelis con Luca Zingaretti e Marco D'Amore: la pulsione noir di rivalsa e l'innescarsi di un uomo, sullo sfondo di una Napoli artificiale decolorata ed asettica
Presentato fuori concorso all’ultimo Festival di Venezia, Perez. di Edoardo De Angelis con Luca Zingaretti e Marco D’amore, è un noir introspettivo, la storia di un uomo che prova a riformularsi, ricrearsi, ricominciare da zero, dopo esservi stato per troppo tempo al di sotto.
Un avvocato d’ufficio, inserito in un ambiente non suo e al quale non vuole più appartenere, di cui vediamo l’ultimo stadio della sopportazione e mai un passato migliore: nello sguardo spaventato e nei modi continuamente vessati s’intravedono la saturazione e la voglia di cancellare tutto, e sono pochi, ma per lui quasi impossibili, i passi verso ipotetiche libertà agognati e descritti. Una bomba pronta a scoppiare, da manuale, in cui Demetrio Perez è lì, con la paura nella mano destra e la determinazione nella sinistra, pronto a diventare finalmente un’arma, con quel punto alla fine del nome che è per il compiersi come persona tanto quanto per il calibro di una pistola.
All’opposto dei formicai di Gomorra – La serie (e con un D’Amore in ruolo completamente diverso da quello di Ciro), riportando la periferia e i suoi casermoni alla dimensione di terra di nessuno, il regista decolora il proprio film, luminoso di bianco e di grigio, di cemento e di cielo: canyon di palazzi, luoghi che sarebbero neutri e malsanamente rassicuranti, se non fosse per le pulsioni di rivalsa di Perez, così come i meccanismi sociali perfettamente funzionanti e sedanti di corruzione e servilismo, rispetto ai quali scene chiave come quella dei tori arrivano ad assumere più sfumature metaforiche e simboliche.
De Angelis dà la giusta proporzione umana alla vicenda, eliminando l’epica, con un pugno di personaggi e avvenimenti in cui la miseria del suo protagonista recalcitra in tutte le direzioni, toccando e cercando di scardinare ogni elemento della sua piccola vita/mondo, in cui l'idea di rivincita (ma non di vendetta) può corrispondere col colpo di spugna assoluto e la dimensione (non) eroica assumere caratteri famigliari e strettamente personali, prendendo le distanze dalle sole connotazioni di genere.
Ma seguendo l’andamento mentalmente esitante ed insicuro del protagonista, a dividere forti exploit – soprattutto legati all’emergere del nuovo Perez – vi sono inevitabili cali di tensione: un eccesso di rinvii che talvolta trasforma le evocazioni e l’empatia in semplice attesa, mentre altri strappi umorali le spezzano, con forse qualche sessione di jogging di troppo.
Con la vulnerabilità e la debolezza rimarcate da troppe smorfie fuori tono, l’interpretazione di Zingaretti rimane in diversi momenti non del tutto decodificabile, non intersecata con il mood del film, che sembra cercare di evitare il grottesco il più possibile, anche quando potrebbe tranquillamente abbandonarvisi.
Una discontinuità tuttavia perdonabile di fronte all’abilità con cui il resto viene dipinto.
Voto della redazione:
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