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Autore Giulia Marras :: 8 Settembre 2015

Recensione di Viva la sposa di Ascanio Celestini | Ubriaconi, prostitute, truffatori e spose immaginarie sono i personaggi in cerca di assoluzione del lungometraggio dell'autore teatrale presentato nella sezione Giornate degli Autori

Dopo La pecora nera, presentato in concorso al 67° Festival di Venezia, Ascanio Celestini arriva al secondo lungometraggio di finzione inserito all’interno della sezione Giornate degli Autori di questa 72esima edizione della Mostra del Lido. Salutato dai più come il doveroso omaggio al quartiere Quadraro di Roma, il “nido di vespe” per i tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale tristemente noto per il rastrellamento del 1944, Viva la sposa non è tanto un viaggio per le strade di una borgata ancora sofferente e problematica, quanto un racconto dostoevskiano su una manciata di vite, dalla vita corrotte, ubriache, prostituite, abbandonate.

Gli abitanti che teatralmente occupano i bar, le case malmesse, i parchi discariche, rappresentano, nella loro tormentata convivenza, quel “basso” di cui Celestini torna costante a interessarsi fin dai suoi esordi sul palcoscenico; personaggi d’ispirazione chiaramente pasoliniana si scagliano su uno sfondo che di Pasolini ha perso la tragicità e la bellezza decadente, e si scontrano con una nuova crisi di valori e immagini ben lontane dalla fotografia di Roma scattata dai fotogrammi e dalle parole del poeta di Casarsa. L’ ”alto”, in contrapposizione al nuovo sottoproletariato, è praticamente assente: la sposa del titolo è un’idea che vaga dallo schermo di una televisione ai pensieri dei protagonisti, come un onirico spiraglio di libertà, mentre l’unica istituzione presente è quella della Polizia più spietata. Il film volge, infatti, il suo sguardo principale, anche se intercettato da altri, troppi, personaggi corollari, alle sorti maledette di Giuseppe Uva, Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi e agli altri morti di piccole delinquenze; per questo motivo, senza neanche essere uscito ufficialmente in sala, Viva la sposa è già oggetto di polemica, a causa di una lettera indirizzata al regista da parte del Sindacato Indipendente di Polizia COISP che definisce la pellicola, ammettendo però di non averla vista, come «l’ennesimo populistico attacco a chi è chiamato a rappresentare lo Stato».

Controversie a parte, per quanto riguarda invece lo sguardo puramente registico di Celestini, esso non manca di consapevolezza né di creatività, senza soffrire neanche di quell'iper-realismo tipico dei fratelli Dardenne che hanno prodotto la pellicola. Anzi, il realismo si tinge di sfumature surreali e tragicomiche, pennellate da una romanità che purtroppo a lungo andare scade e stufa, soprattutto nelle insistite interpretazioni dei non autoctoni (Alba Rohrwacher) e nelle distanze con gli altri linguaggi e accenti, imperdonabilmente sottolineati e forzati, come quello del finto milanese Concellino (Corrado Invernizzi).

Illuminato dalla fotografia di contrasti di Daniele Ciprì, Viva la sposa soffre purtroppo della solita malattia del cinema italiano di auto-compatimento e rassegnazione, ma rimane impresso da improvvisi e appuntiti momenti di rottura, dei punctum, come li chiamerebbe Roland Barthes, che riescono a sviare il consueto arco narrativo, a far emergere personaggi di secondo piano, e a cristallizzare piccoli movimenti altrimenti insignificanti. Esattamente come la borgata, la prova di Celestini, di base un esercizio di prosa cinematografica che ricalca pedissequamente la sua tipica prosa teatrale, vive e sopravvive proprio dell’apparentemente insignificante che lo popola, incastonato maggiormente nella splendida malinconia del piccolo Salvatore (Salvatore Striano).

Voto della redazione: 

2

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