Recensione di Paterson di Jim Jarmusch | Adam Driver, interprete profondissimo ed eccezionale, è il poeta/autista del film del regista americano, in concorso a Cannes. Senza premi, a parte il Palm Dog, è invece uno dei film più intensi dell'anno
“Più tardi capisci che c’è una quarta dimensione” è un verso delle poesie di Paterson, nome-metonimia di un autobus, di una città, di un poeta. Ma la quarta dimensione, quella del tempo, è anche quella che avvolge e scandisce la metrica dei versi di Jarmusch, che struttura questo suo nuovo film come una poesia, coerente allo stile autoriale che da sempre lo contraddistingue nel panorama statunitense, nonché, e soprattutto, alla sfida che porta avanti in Paterson e al suo protagonista. Nello scorrere di una settimana, ribadito dai nomi dei giorni che compaiono sullo schermo, attraverso la quotidianità del risveglio, allo stesso orario, tutti i giorni, nello stesso letto, il ripetersi dei gesti e il variare impercettibile e sovversivo degli stessi, Jarmusch trova la forma, filmica e ritmica, per uno straordinario componimento per immagini sull’ordinario. La vita di Paterson – il lavoro, l’amore, il pub – è la messa in scena della semplice idea per cui ognuno può scegliere il proprio percorso, deviando dalle strade predeterminate, e dai cliché dell’arte come eccezionalità, irregolarità, superiorità.
“Sono solo un autista”
Paterson non fa che ascoltare – e interiorizzare, lasciando all’esteriorizzazione la fidanzata – per riversare nella sua poesia: senza avere la presunzione del genio, è testimone attento, e divertito, mai giudicante, delle vite dei suoi passeggeri, degli amici del pub, delle parole ossessive di Laura, e dei piccoli dettagli, sempre uguali a loro stessi, o forse no. L’eccezionalità di Paterson risiede esattamente nella sua mancata straordinarietà e nella sua mancata aspirazione alla fama; nell’accettazione di quel “same all, same all”, della routine, che sembra dover essere il nemico dell’arte, così come l’anonimato, la modestia di (voler) rimanere nascosti, di non volere nient’altro dal proprio quotidiano. Seguendo la poetica di William Carlos Williams, di Paterson la città, l’ispirazione, di Paterson il protagonista, nasce invece dall’osservazione delle cose comuni, del mondo reale, e la sua arte ben si racchiude in un prezioso taccuino, oggetto di contesa con il cane Marvin, tipico elemento di surrealismo jarmuschiano e di sfida all’ordine dei pensieri di Paterson e della struttura filmica. Ma non è il solo: una serie di eventi fuori dall’ordinario metteranno in discussione il suo ruolo di ambiguità di individuo e artista, tra cui un incontro con una bambina poetessa, sufficientemente brava e ingenua per incastrarlo - “un autista che conosce Emily Dickinson, wow!” - in un momento tipicamente wendersiano, e quindi, rivelatore.
Anarchico del cinema americano, il regista di Dead Man e Only Lovers Left Alive fa parlare di anarchia i due protagonisti di Moonrise Kingdom, gli anarchici (cresciuti) di Wes Anderson, popola di gemelli il mondo d’immaginazione di Paterson; lo fa incontrare con Method Man, che compone poesia, rappata, in una lavanderia; gli dona un passato (l’esercito), un gusto letterario (oltre ai poeti citati, s’intravede anche un Foster Wallace nella libreria), una fidanzata ossessionata dal bianco e nero. Dopo avergli costruito una vita banalmente ordinaria, la rompe, riempendola di variazioni e contraddizioni che rendono Paterson – il poeta e l’autista, la città, l’autobus, e, soprattutto, il film – una contraddizione in sé, magica e bellissima. Quindi, poesia.
Voto della redazione:
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