Recensione di Soap Opera di Alessandro Genovesi con Fabio De Luigi e Cristiana Capotondi: il film che apre Roma 2014 vorrebbe essere sofisticato e alternativo, ma finisce con l'incappare nei soliti difetti della commedia di casa nostra
Qualcuno dirà che si respira un’aria diversa, in Soap Opera di Alessandro Genovesi, film d’apertura della nona edizione del Festival di Roma. Alternativa rispetto all’omologazione dilagante della commedia italica, meno conformista del solito, addirittura legittimata ad aprire le danze di un festival internazionale. E il film di Alessandro Genovesi a onor del vero un po’ ci prova: la coralità del cinema di casa nostra tenta di prenderla in modo diverso, guardandola in modo più alieno e obliquo, perfino in vitro (l’inquadratura stile casa di bambola che apre e chiude il film), azzardando un elettroshock a quello che sembra ormai un cadavere irrimediabilmente da seppellire.
Peccato però che la supposta originalità del film e il suo brio sofisticato sia solo sulla carta, nella confezione, nell’apparenza di scenografie fuori dal tempo e nella cornice del titolo: la girandola di un gruppo di personaggi che abitano tutti nello stesso palazzo e i cui destini si incrociano alla vigilia di Capodanno si pone infatti dentro un contesto che vorrebbe risultare per lo spettatore il più possibile deconstetualizzato, come solo le narrazioni popolari più affascinanti sanno essere. Mentre fuori la neve continua a cadere, la regia di Genovesi applicata alle disavventure dei suoi personaggi è tutta un fiorire di musiche straniere raffinate, di arietta vellutata e battute che un po’ calcano la mano un po’ si ritraggono, prediligendo la patina sentimentale a quella della risata più sguaiata e volgare.
[Leggi anche: Tutto il cast di "Soap Opera" al Festival di Roma]
In cos’è allora che il film di Genovesi inciampa, e perché la sua alternatività ai modelli triti e ritriti della commedia italiana contemporanea è premeditata ma non attuata? Perché la sua impostazione teatrale, il realismo magico, l’estetica un po’ straniata non riescono a non evitare che si scada nel consueto minestrone nostrano? Le risposte sono tutte nella scrittura, nell’atteggiamento e nello sguardo del regista, già autore anche di Happy Family, portato al cinema da Gabriele Salvatores. Se quel film radicalizzava l’anomalo spirito del copione fino in fondo, pur toppando vistosamente, Genovesi invece si limita ad imbastire intorno al suo film un architettura che lui stesso definisce stralunata e bizzarra ma che nei fatti non si schioda mai dagli abusati intrecci telefonati, dal macchiettismo stereotipico degli interpreti (i tic storici di Abantuono, la ripetitività seriale di De Luigi, perfino la Capotondi, svampita ed eterea fino all’inconsistenza) e da un procedimento narrativo che non pensa all’autonomia del racconto ma a come ingolfarlo di sketch più o meno efficaci per timbrare il cartellino. Il regalino che ne deriva, puntuale, scontato e rigorosamente riciclato, è il solito. Il fatto che sia meglio impacchettato non lo rende diverso, né più lodevole o memorabile.
Voto della redazione:
Altri articoli che possono interessarti
Per condividere o scaricare questo video: TV Animalista
Facebook Comments Box