Sei anni fa scompariva Dino Risi uno dei pionieri della commedia all'italiana. Uomo dall’ironia tagliente, amante del lato carnale della vita, insofferente alla retorica, ha raccontato come pochi i cambiamenti del costume italiano.
"Pensavo che non avrei superato l'anno 2000. Ho dovuto rifare i conti. Tutti i miei amici se ne sono andati. Tutti più giovani di me. L'essere ancora vivo mi chiedo se sia un premio, o un castigo. Ho fatto un esame di coscienza. Non sono orgoglioso di me. Sono stato stupido, infedele, bugiardo, vile, ipocrita, fatuo, furbo, vanesio, indecente, annoiato, triste, invidioso, disperato. Ma anche buono, generoso, innamorato, fedele, allegro, sognatore, dubbioso, timido, ingenuo, ignorante, educato, rispettoso, onesto...".
È stato tutto e il contrario di tutto Dino Risi (23 Dicembre 1916 , Milano - 7 Giugno 2008, Roma), come l’Italia che ha raccontato da cronista di razza, colto e tagliente, spesso anche “cattivo”, ma sempre libero e desideroso di cogliere il lato carnale e sentimentale della vita che la rendevano meno monotona. Risi è stato il nemico numero uno della retorica imperante e del politicamente corretto, allergico ai diktat del dovere sociale, ai cosiddetti film impegnati (i cui massimi rappresentanti erano Rosi e Petri) che senza dubbio hanno conferito un certo prestigio morale al nostro cinema. In questo senso Risi si è contraddistinto per anticonformismo e per ironia; ha tenuto lontano dal suo cinema ogni analisi psicologica e soprattutto politica ma “limitandosi” a raccontare amori, scherzi, buffonerie, cialtronerie, attirandosi le antipatie della sinistra radical chic convinta di essere la detentrice esclusiva della cultura.
Era un bellissimo uomo Dino Risi, elegante ma dal carattere aspro, avviato ad una brillante carriera medica ma affascinato dalla settima arte e, come il suo collega e coetaneo Mario Monicelli, dal pensiero di trasformare in immagini gli elementi della cultura popolare. Ma a differenza del regista toscano, il milanese Risi non è pessimista, né aggressivo nel fotografare l’Italia soprattutto tra gli anni ’50 e ‘60 dopo aver portato scompiglio e originalità nel panorama cinematografico italiano fatto di buone maniere e perbenismo; semmai Risi ha dei punti in comune con l'ironia e la leggerezza del grande Billy Wilder.
L’occhio del regista è clinico; con piglio sensuale, velato di malinconia Risi, dirige Alberto Sordi, Sophia Loren, Franca Valeri, Peppino De Filippo e Vittorio De Sica nell’amara commedia Il segno di Venere (1955), ingiustamente considerato un film minore, e Marisa Alassio, Renato Salvatori e Maurizio Arena nella scanzonata e dialettale epopea di giovanotti e pupe romanesche Poveri ma belli (1956). È un’Italia che usciva dalla felice stagione del Neorealismo quella che ha vissuto Risi, un’Italia smarrita, alla ricerca della propria strada artistica i cui stati d’animo venivano acutamente intercettati dal regista che li registrava sul grande schermo così come erano: spensierati ma dal retrogusto amaro e onusto di solitudine (l’Italia si avviava al boom economico) senza ulteriori approfondimenti, ma superficialmente (avverbio usato non in senso negativo). Superficialmente Risi ritraeva anche le donne, così come le vedevano e volevano gli uomini: opulente e generose.
Tra i bizzarri “tipi” che il regista ha estratto dal vasto campionario umano è impossibile non ricordare Bruno Cortona, esuberante sbruffone che vive di espedienti interpretato dal mattatore Vittorio Gassman nel capolavoro di Risi, Il sorpasso (1962), snobbato dalla critica dell’epoca, poi rivalutato, come è accaduto anche per Una vita difficile (1961) dove figura un Sordi inedito, I mostri (1963), satira che prende di mira i miti degli anni ’60, Profumo di donna (1974), dramma della solitudine, solo in apparenza giustificata dalla condizione del non vedente protagonista della pellicola interpretato ancora una volta da uno strepitoso Gassman. Ma Gassman non è il solo attore ad essere stato valorizzato ai massimi livelli da Risi, il quale ha trovato anche in Ugo Tognazzi e in Nino Manfredi due interpreti eccezionali.
Sarebbe scontato fermarsi ai suddetti film per cercare di onorare nella maniera più giusta la memoria di un grande regista che ha aperto le danze al fenomeno antropologico e culturale più importante della storia del cinema italiano, quindi citiamo anche film meno celebri ma che sicuramente gli estimatori di Dino Risi troveranno ugualmente piacevoli: Il Vedovo (1959), Il mattatore (1960), La marcia su Roma (1963), Il giovedì (1963), Il gaucho (1965), L'ombrellone (1966), Operazione San Gennaro (1968), Straziami ma di baci saziami (1968), In nome del popolo italiano (1971), La moglie del prete (1971), La stanza del vescovo (1977), Caro papà (1979), Fantasma d’amore (1981).
Se c’è un filo conduttore che unisce i film di Risi questo è rappresentato dalla frenesia dei personaggi che si dimostrano individui più che persone, privi di spiritualità (ecco la grande capacità di osservazione della realtà di Risi) come se intraprendessero una folle corsa verso una felicità (o meglio un piacere effimero) senza vergogna e senza scrupoli, che spesso conduce alla morte.
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