Recensione di Tutto molto bello | E invece è tutto molto brutto
Recensione di Tutto molto bello: Il secondo film di Ruffini regista si fa vanto di non stimolare nulla all'infuori di una bolla di sapone d'umorismo becero e sguaiato, spegnendo il cervello e qualsiasi emozione in sala
Recensire un film come Tutto molto bello è un’operazione che pone, in verità, in una situazione quasi di imbarazzo. Perché diciamocelo, un conto è trovarsi di fronte a un’opera irrisolta, deludente, imperfetta. Un conto è trovarsi di fronte a qualcosa con cui i parametri basilari e canonici del fare critica, semplicemente, cadono nel vuoto. Come si fa a discutere di regia quando a malapena si può parlare di posizioni di macchina alla stregua, al massimo, di una sitcom? Come si analizza una sceneggiatura che sembra un canovaccio e avanza a suon di gag sulla forfora, di giochi di parole stupidi (non infantili: proprio stupidi) e interminabili fraintendimenti (indovinate cosa capisce Ruffini quando gli si cita il “calzone”), che trascina una scena che dovrebbe durare sessanta secondi in un frammento di 15 minuti che ripete sempre e solo la stessa frase? Cosa dire di un montaggio pieno di errori elementari? E come commentare un cast in cui uno dei due protagonisti – Frank Matano – scimmiotta paurosamente lo Zach Galifianakis di Parto col folle (e il fil rouge della moglie incinta pare proprio scoppiazzato) risultando insopportabile, mentre il bravo Ahmed Hafiene fa l’arabo idiota e puttaniere, e addirittura un attore – Salvatore Misticone, ‘Asterix’, protagonista di un reiterato sketch – è utilizzato allo stesso identico modo di Benvenuti al Sud?
Insomma, c’è poco da girarci intorno: Tutto molto bello è un vuoto senza fondo, che ispira tristezza immensa, che non vuole – e di questo se ne fa anche un vanto – stimolare nulla che non sia una bolla di sapone d’umorismo becero e sguaiato che svanisce senza lasciar traccia nel momento in cui è evocata, un usa&getta che, checché ne dicano i realizzatori, non-fa-ridere, né quando è volgare (e lo è pure col freno a mano) né quando si butta sullo slapstick.
Metà sequenze paiono improvvisate, e l’improvvisazione funziona se si è, tanto per fare un esempio recente e altrettanto popolare, Checco Zalone, corpo comico travolgente (e che infatti piace a tutti) ma con dietro una struttura e un ragionamento, una sceneggiatura, un minimo di rispetto per chi guarda, un ritenere gli spettatori esseri pensanti e non larve col cervello spento in una sala catatonica. In tutto ciò, non mancano i flash demagogici che vedono Ruffini nella parte di un agente fiscale rognoso, che ovviamente si lagna di tutto ciò che non va nel paese sfruttando Twitter – della serie, che barba che noia questa gente che sta sempre a criticare – salvo poi lanciarsi in un liberatorio “fuck the rules”.
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L’unico momento in cui ci si può potenzialmente immedesimare è quando, davanti allo scambio di battute “Errare humanum est, perseverare…” – “Ovest!”, Angelo Pintus prende il fucile e puntandolo contro Matano urla: “Per una battuta così è giusto che muoia!”. Senza essere così drastici, per un prodotto così sarebbe giusto farsi un ripasso, anzi uno studio, di quella commedia che – ma guarda un po’ – sa far ridere facendo leva contemporaneamente su pancia, testa e cuore. Giacché far ridere con intelligenza è un’arte, non una malattia infettiva da cui fuggire a gambe levate come fa lo sgangherato trio protagonista per tutti e 90 i minuti del film.
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