Recensione di The Dressmaker - Il diavolo è tornato | Quanto è glamour il Far West?
Recensione di The Dressmaker - Il diavolo è tornato | Per Kate Winslet vendetta e moda vanno di pari passo in un dramma sfrontato e satirico che la regista Jocelyn Moorhouse definisce "Gli spietati con la macchina da cucire"
La dimensione rurale di un paese che riflette le atmosfere del Far West contrapposta alle mise glamour dell'alta moda metropolitana degli anni '50. Una sceneggiatura che si adagia sugli stilemi dei revenge movies ma ne sostituisce le tipiche armi di rivalsa, che prendono le sembianze di piume e tessuti lavorati su una spietata macchina Singer. Il risultato è un groviglio di elementi eterogenei che aprono una vasta serie di possibilità ad un film che in due ore riesce a sfruttarne una massiccia dose, camminando pericolosamente in equilibrio sopra un filo sottile su cui si sbilancia spesso senza però rischiare mai veramente di cadere.
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Trasponendo l'omonimo romanzo di Rosalie Ham, l'australiana Jocelyn Moorhouse - già conosciuta per Istantanee e Gli anni dei ricordi - torna con un lungometraggio che si snoda a cavallo tra dramma, commedia nera, sentimentalismo ed una forte satira sociale, che porta a galla il marciume di un grottesco corteo di personaggi quasi felliniani, svelandone i segreti più scomodi. Violenza domestica, stupro, emarginazione del diverso, corruzione, malattia mentale, droga, malasanità: la città di Dungatar si rivela un microcosmo parodico della società moderna che The Dressmaker vuole condannare, avvalendosi di un tono canzonatorio ma dal retrogusto sempre amaro.
Il leitmotiv dell'opera si esprime nel concetto metaforico del vestire fuori per spogliare dentro; se ogni dialogo si fa espressione del significato simbolico di nudità, ogni fotogramma è minuziosamente costruito per esaltare l'aspetto formale del costume e la dimensione stilistica del film. Il rischio di una fotografia eccessivamente patinata è altissimo, tuttavia il premio oscar Donald McAlpine (Moulin Rouge!, Romeo + Giulietta) fa un lavoro pulito e raffinato, che riesce nell'impresa di risaltare il contrasto tra i paesaggi agresti e la dimensione posh degli outfit (AACTA ai migliori costumi alle australiane Marion Boyce e Margot Wilson) sempre sulle note di una colonna sonora degna di una pellicola di Sergio Leone.
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Le virtuose Judy Davis e Kate Winslet, rispettivamente nei ruoli di Molly e Myrtle Dunnage, padroneggiano senza troppe difficoltà e con freschezza interpretativa due personaggi tutt'altro che semplici, costruiti per giocare sullo spregiudicato rapporto tra madre e figlia che cresce in un continuo carosello di emozioni polarizzate. Emozioni che donano forse eccessivo lirismo alla vicenda, che ne risente nei toni appesantiti più del necessario dalla ridondanza di pathos e di climax sentimentale. La Moorhouse tenta di smorzare - riuscendoci in parte - con gag esilaranti e dalla risata facile, che però talvolta hanno l'effetto di mettere in secondo piano l'elemento centrale della sceneggiatura: la vendetta.
Una menzione speciale va al brillante Hugo Weaving nell'interpretazione di Horatio Farrat, un eccentrico sergente di polizia con la segreta passione per la moda e il crossdressing, che oltre a riportare alla mente il precedente ruolo dell'attore in Priscilla, la regina del deserto, sembra quasi un inedito omaggio a John Waters e al suo sceriffo "shitface" nel film Nuovo Punk Story.
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Definito dalla stessa regista una sorta di "Gli spietati con la macchina da cucire", The Dressmaker non sarà certo il film dell'anno, ma il ritorno alla regia di Jocelyn Moorhouse - dopo ben diciotto anni di assenza - si è rivelato prezioso per quel cinema audace e sfrontato che punta all'ibridazione di elementi considerati formalmente incompatibili fino a che qualcuno non corre il rischio di accostarli.
Voto della redazione:
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