Recensione di Il nome del figlio | Commedia familiare per Archibugi con un cast in prima linea
Recensione di Il nome del figlio: remake d’ispirazione francese, ancora una volta la commedia italiana pesca fuori dalle proprie idee, ma la Archibugi aggiorna la comicità corrosiva dell’originale con una versione pop di malinconica tenerezza
Se si esclude il fatto che Il nome del figlio sia stato già prodotto su altri lidi e con altro titolo (quelli francesi con la Cena tra amici di La Patellière e Delaporte) il lavoro di Francesca Archibugi potrebbe considerarsi un risveglio pop della commedia italiana. Una sorpresa del Bel Paese cinematografico pronta a pungerci col sarcasmo e a inquadrarci con affetto. Un film intelligente che parla di noi e ci sfila di dosso le mascherine che amiamo indossare: l’egoista buono, l’orgoglioso verace, l’opulento burlone o il finto ribelle che adora parlare di sé e di politica.
La verità però è che la storia esiste già dal 2012 (anzi da prima con la pièce Le prénom) e la cavillosa introduzione è obbligatoria, per rispetto a quei lavori d’Oltralpe verso i quali sempre più spesso andiamo a pescare, quasi fossimo destinati a rarissime eccezioni o all’eterno remake. Capita così che dentro la vitalità capitolina della versione italiana (Roma è qui citata, mostrata, romanzata in sottofondo) una sera cinque amici (l’intellettuale Lo Cascio, l’egocentrico Gassmann, la superficiale Ramazzotti, la trascurata Golino e il superiore Papaleo) si riuniscano a Cena, e che tra una battuta e l’altra il precario equilibrio che li lega sia sconquassato da uno scherzo innocente.
È la miccia Gassmann: il motore dell’azione, il perno su cui ruotano rospi indigesti, ostilità represse e gioie del passato. Ingredienti di base miscelati col guizzo dell’affiatato cast e giocati sul temperamento sanguigno dei legami più intimi e complicati. Amici di una vita, con il ruolo che abbiamo dato loro a dieci anni e il cambiamento che non vogliamo accettare. Siamo noi, serviti nelle pietanze di un banchetto a porte chiuse a cui partecipiamo silenti, quasi a spiare una rimpatriata coi nostri vizi e le nostre virtù, vittime e carnefici di quella nostalgia canaglia che pervade l’intera opera.
Il corrosivo umorismo francese qui attecchisce su ritmi meno serrati, alla dialettica si preferiscono i flashback (anche se alcune battute sono riprese dall’originale, letteralmente) e dentro le vite dei cinque mordaci protagonisti ci sono più stereotipi che personalità. Tuttavia le mani della Archibugi e di Francesco Piccolo (sceneggiatore) aggiornano la struttura graffiante e epidermica del lavoro francese con una sociologia più dettagliata e malinconica, con una tenerezza superiore nel finale e con la drammaticità (anche) narrante della Ramazzotti. Si danza ne Il nome del figlio, sulle note di Lucio Dalla, sull’affetto e sul perdono, sui segreti e sulle acredini, fino a fermare la musica e a fissare la camera nelle brevi sequenze di bianco e nero, che ci interrogano su chi siamo o chi vorremmo essere. Forse (a sentire la regista) “ritratti rinascimentali in movimento”, forse si poteva eliminare quel tratto di trivialità superflua e la musica invadente d’inizio, ma in sala arriva molto di peggio.
Voto della redazione:
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