Recensione di Taxi Teheran: il pluripremiato Jafar Panahi segue la sua vocazione di regista-documentarista discutendo sul futuro del cinema dentro i divieti di un regime che nega la vita intellettuale. Lodevole prova dal retrogusto amaro
Taxi Teheran non è soltanto un film, è anche un concetto. Lo si comprende immaginando d’avere il desiderio di condividerlo e scoprirci con la bocca cucita da qualcuno che ci obbliga al silenzio. Qualcuno che controlla ogni nostro anelito di libertà, che quanto più riconosce il nostro desiderio tante volte ci ostacola soffocandolo; che più intuisce quanto ci piacerebbe parlare di questi ostacoli tanto più li farà diventare grandi, poi li trasformerà in restrizioni e infine in censure.
Taxi Teheran è la prova di un potere che teme l’arte e mira a disabilitarla, sopprimendo linguaggi scomodi e tacendo verità pericolose. Risultato di un regime che colpisce l’indipendenza di pensiero, di azione, di parola e motivo per cui diviene meravigliosa insolenza innalzata contro l’autorità, capace di usare il cinema come profumo dentro aria putrida.
Nonostante i due arresti (che lo accusano di cospirazione anti-islamica) il regista Jafar Panahi continua a girare le sue opere, dichiarando orgogliosamente di non poter censurare se stesso, né tantomeno di scendere a compromessi prestabiliti. Il suo film sfoglia le pagine della quotidianità politico-culturale iraniana dentro l’abitacolo di un taxi, si interroga sulla pena di morte, sul ruolo delle donne, su come fare cinema, (ra)accogliendo momenti tragicomici provati sempre da una sonora indignazione. È cinema funzionale dentro maschere e realtà, in cui Panahi incarna la voce di qualsiasi cineasta che ama il proprio lavoro. Sofferenza sull’interazione della vita e dell’arte e coraggio attraverso una cinepresa su cruscotto, pur senza avere titoli di coda: a chi rivela troppo non sono concessi.
Siamo nel mezzo di un conflitto tra l’ignoranza e la conoscenza, tra i divieti e il confronto, tra chi arreca il danno e chi invece si lecca le ferite. Il solo timore è che per quanto emerga, per quanto “si possa sempre contare sulla gente del cinema”, Taxi Teheran diventi manifesto apprezzato dai soliti noti e costante testimonianza respinta dai luoghi d’origine. Una sorta di immanente critica d’attualità destinata ad avere le ali tarpate.
L’ottimistica intenzione e l’obiettivo morale del regista si scontrano dopotutto con l’emblematica e amara conclusione del film, ma è anche palese il filo conduttore che lo anima. Lì dove alcune ombre vogliono oscurare il cambiamento Panahi trova il modo di accendere una luce.
Voto della redazione:
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