Recensione di Posh di Lone Scherfig con Max Irons, Sam Claflin e Douglas Booth: una prima parte dispersiva e superflua anticipa un epicentro feroce, spietato e sadico che da solo vale la visione
Posh di Lone Scherfig, con Max Irons e Sam Caflin, sembra realizzato da due registe differenti: una svogliata per la prima, superflua parte e una posseduta per la seconda, la cena-carneficina fulcro del film.
Ricchi, viziati ed esaltati: l’incipit ambientato nel 1776 sulla fondazione del Riot Club è del tutto esauriente. Ma subito dopo, ai giorni nostri, quelli che sarebbero stati dei buoni (ma forse non essenziali) flashback si insinuano come una spazientante – nonché non appartenente alla pièce originale di Laura Wade – presentazione dei membri del Club e dei potenziali nuovi adepti. In nome del “capitolo introduttivo” si dà aria a cliché su rampolli, Oxford e status sociali così a lungo da far mutare le sfumature in traiettorie dispersive ed anonime. Qui Lone Scherfig sembra più interessata a giocare con luci pallide ed interni in penombra che con i personaggi, rinviando tediosa, nuovamente incapace di raccontare sia il divertimento malsano sia le turbe giovanili senza cadere a sua volta nel meccanismo della litania e della vacuità dietro immagini ben costruite.
Solo dopo minuti estenuanti, Posh muta di colpo. I protagonisti sembrano manifestarsi per la primissima volta: fuori dal pub della cena si pregusta il veleno. Quelli che fino a quel momento erano tutti generici figli di papà British diventano marci bastardi ben connotati. «Sembriamo le iene di Tarantino» dicono, con i loro abiti settecenteschi, ed infatti il tutto avviene, teatrale ed affilato, attorno ad un tavolo come e più che nei lavori del regista, in un crescendo violento sempre più allucinato, dove le scissioni emergono come una tortura granguignolesca, macabra, colorata, enfatizzata.
Trionfalmente giungono la devastazione, le vessazioni e l’esaltazione in un sadismo senza controllo, inesorabile nella sua componente verbale che non può fare a meno di tramutarsi in fisica, mentre tutto attorno cade letteralmente a pezzi in un incubo incapace di stare fermo, biliare e nevrotico, verso la distruzione. Tra quelle mura, Lone Scherfig si dimostra dinamica, capace di sondare e far esplodere gli istinti dal di dentro, abile cineasta-macellaia ed osservatrice di un diabolico mattatoio grondante di ferocia ed insieme sinceramente umano in quell’unica, lunga, incantevole, interminabile scena di cui non si vorrebbero vedere né il punto di rottura né le conseguenze, ma l’eterno rabbioso manifestarsi.
Posh appare come un film horror, di quelli (la stragrande maggioranza) in cui inizialmente non accade nulla, per supposta suspense o esplicitazione del contesto. Ma può bastare una seconda metà abbagliante a far accettare un primo tempo quasi indegno? Servono veramente tutte queste tele di consuetudine e luoghi comuni per accaparrarsi dell’empatia? No, se devono andare a comporre un’aggiunta imbarazzante, per la trasposizione palcoscenico-schermo e per chi la guarda. Oppure sì, ed il voto/valore dato alla pellicola in virtù del solo suo epicentro raddoppierebbe. Per il momento soprassediamo e mediamo.
Voto della redazione:
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