Recensione di Altman di Ron Mann. Il documentario si limita a elencare i punti-chiave della carriera del grande regista senza grande inventiva
Presentato alla Mostra del cinema di Venezia 2014, arriva nelle sale un sentito omaggio a uno dei registi-chiave della New Hollywood, scomparso nel 2006: l’anarchico, indefinibile, coraggioso Robert Altman.
Scegliendo la strada della semplicità fin dal titolo essenziale (Altman), Ron Mann ricostruisce la carriera del maestro americano, partendo dai suoi esordi fino al successo di M*A*S*H (1970) e Nashville (1975), senza paura di toccare anche tasti dolenti come i clamorosi flop di Quintet (1979) e Popeye (1980). Accanto ai classici materiali alla base del documentario, come interviste, testimonianze e spezzoni di film, Mann offre due spunti interessanti: alcuni filmati amatoriali della famiglia Altman e il ricordo di amici e collaboratori, chiamati a dare una definizione dell’aggettivo “altmaniano”.
Il ritratto che emerge è quello di un artista sempre pronto a mettersi in discussione, fiducioso nei confronti della sua poetica ma mai tracotante, capace di prendersi le proprie responsabilità anche davanti al fallimento, come nel caso, piuttosto eclatante per l’epoca, del musical ispirato a Braccio di Ferro. Vitale, spontaneo, sanguigno, Altman cercava spunti per i suoi film dalla quotidianità e spingeva i suoi sceneggiatori a fare altrettanto, come accadde con Joan Tewkesbury, autrice del capolavoro corale Nashville. E corale, come molti suoi film, è anche il documentario, dove tutti gli amici di lunga data trovano spazio, da Keith Carradine a Elliott Gould, passando per Robin Williams.
Ma è soprattutto Altman a parlare per Altman, narrando, tra interviste e interventi pubblici, la sua vita passata dietro la macchina da presa: particolarmente toccante il contributo che vede il regista ritirare l’Oscar alla carriera, l’unico vinto, dedicarlo alla moglie e raccontare del trapianto cardiaco che gli ha restituito una nuova vita.
Al di là di questo, però, non c’è molto: il documentario risulta essere piuttosto compilativo, un elenco, per quanto puntuale, dell’intera carriera del cineasta che include anche cenni (seppur sobriamente dosati) alla sua vita privata, grazie all’apporto della moglie Kathryn Reed Altman, ma non restituendo, nella forma, quella incontenibile volontà di sperimentazione e quel coraggio di osare che ne ha contraddistinto il percorso professionale, spesso travagliato. La sensazione che resta è quella di un lungometraggio d’impianto troppo tradizionale e poco inventivo, incapace di dare il respiro di un cineasta tanto poliedrico e sfaccettato.
[Leggi anche: Il fantasma di Robert Altman al Festival di Venezia 2014 con un documentario]
Il finale, che riprende la chiusura dell’ultimo film di Altman, il crepuscolare e nostalgico Radio America (2006), risolleva un po’le sorti di un documentario utile per i neofiti e, forse, commovente per gli appassionati, ma poco pregnante e cinematograficamente irrilevante.
Voto della redazione:
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