Recensione di My Old Lady: Israel Horovitz approda al cinema in compagnia di Kevin Kline, Kristin Scott Thomas e Maggie Smith, dirige con la sua classe teatrale un dramma verace e umanista, ma per seguire il romanticismo riduce l'intensità
Prima che Kevin Kline appaia sulla scena lungo le strade del Marais di Parigi il regista Israel Horovitz fa leggere allo spettatore una citazione che dichiara “Oggi è l’ombra di domani”. E non è un caso o una semplice frase a effetto visto che il pensiero, impresso sulla pietra come un epitaffio, esprime in maniera sostanziale la materia di cui è fatto il film. Ovvero passati e futuri connessi al presente, ereditato senza scelta da due figli ormai più che quarantenni. Sono infatti loro a pagare il fio della relazione extraconiugale che i rispettivi genitori hanno consumato tempo addietro. Kline è il protagonista che subisce il danno peggiore: incontra la seconda donna amata dal padre ed è costretto a mantenerla in casa, vincolato da una particolare nota contrattuale. La brava Maggie Smith, nei panni della novantenne a cui “la delicatezza non è una cosa che interessa”, diviene quindi il perno su cui ruota la vicenda dei segreti familiari, ai quali si aggiunge la figlia Kristin Scott Thomas.
My Old lady è l’opera d’esordio di un esperto drammaturgo le cui origini teatrali (lo stesso film deriva dall’omonima pièce portata in tournée dal 2002) si osservano dappertutto. Dalla diegetica umanistica con cui Horovitz compone i monologhi del film alla tragedia psicologica, inquadrata e zumata adattando la veracità del palcoscenico alla plasticità del grande schermo. Il regista mira alla cinematografia del vero e per compiere il salto si affida a tre interpreti nati e cresciuti in teatro. Presenze di bravura fondamentali per sorvolare su alcune lungaggini e ridondanze della storia (l’astio alticcio di Mathias).
My Old Lady risponde a quei genitori che, contrariamente al loro ritenersi “discreti e riguardosi”, hanno seminato bugie e generato disastri. Kline è la voce della memoria, il nervo rancoroso e rabbioso di un’infanzia collassata e di tre divorzi alle spalle. Saggio nel presentare uno sconforto comico e dolente, difende il personaggio senza cadere nell’anonimato dell’ennesimo figlio incompreso. La sua collera è autentica, radicata, riversa sui responsabili della propria disperazione, nel tentativo di sanare le ferite. La Scott è a questo proposito canale di sfogo e anello di un sottile equilibrio, quasi unico tramite di una possibile negoziazione di perdono tra colpe e innocenze.
Horovitz mette in piedi un confronto tra due mondi e due reazioni, eppure, dal furore americano alla sofferenza discreta dei francesi, racconta la medesima (e antica) storia. Il suo film è ricco di amore e del suo rovescio, concretizza il climax nel dramma delle verità e lascia che ogni ruolo abbia la sua importanza. È quindi un peccato che anni di tormenti siano velocemente depurati attraverso una romantica (e facile) soluzione, la quale, per quanto plausibile, fa perdere credibilità alla profondità emotiva emersa nella prima ora.
Voto della redazione:
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