Recensione di La solita commedia - Inferno | Il solito umorismo, il solito bruttismo
Recensione di La solita commedia: Biggio e Mandelli inviano Dante Alighieri sulla terra per ricatalogare la sezione peccatori. Abusatori di potere, adoratori di bruttezza, covatori di rabbia, ci siamo tutti, la sola cosa che manca è lo scopo del film
Non è brutto ciò che è brutto, ma è brutto ciò che piace. Potremmo riassumere La solita commedia distorcendo un noto proverbio, però non saremmo professionali, non spiegheremmo il motivo di tanto ripudio.
Tuttavia va da sé che certi film, semplicemente, sono prodotti: non possiedono altro fine che accendere la miccia della mediocrità e sviluppare un dialogo ipo-culturale. Fin qui perciò all’ultimo lavoro dei Soliti Idioti Biggio e Mandelli va consegnato almeno il premio di “mostruosa” coerenza. A cominciare dal titolo che con un gioco d’astuzia si mette in difesa, anticipando che La solita commedia - Inferno non ha nulla di innovativo, niente che faccia sgranare gli occhi di fronte a un pizzico di creatività, men che meno che susciti una morale arrivati alle conclusioni.
Presi dunque in contropiede mandiamo giù 95 minuti di dramma collettivo venduto su base pseudo sarcastica. Nessuna eccezionale profondità, siamo dinanzi allo stramoderno, strabusato, stra youtubizzato humor fesso della generazione selfie. Quella (sia chiaro) invischiata negli introiti della pochezza, intenditrice delle sue forme e dei suoi luoghi, sapiente messaggera del vuoto che si sforza di prendere in giro, mentre abbindola curiosi e sparge altro nulla. Cicli di bruttezza piazzati sul canale del “ridiamoci su che male non fa” diventano così un patchwork di scenette quotidiane del Popolo italiano, della massa, del fango putrido in cui rischiamo di affogare (se non lo siamo già) dentro la tazza di un gabinetto, generosamente prestata da Trainspotting.
Biggio e Mandelli prendono i nostri misfatti e le loro evoluzioni disegnandosi in caricature d’idiozia, scrivono il film sull’urbanistica di una metropoli invasa da covatori di rabbia e dipingono una razza di lobotomizzati da smartphone. Si aggiungono poi un vergognoso Parlamento celeste e un infernale Minosse che dà di matto dinanzi ai nuovi peccatori, descritti da Dante Alighieri nella ricatalogazione dei gironi infernali. Noi intanto stiamo a guardare l’apice del peggio sottoscritto da un Dio alticcio e collerico attorniato di antidepressivi. Miriamo un proselito di luoghi comuni, che saranno persino veri e inseriti in un ritmo accettabile, ma che non diventano altro. Sono standardizzati, mummie di quelle lamentele che si ascoltano in fila alla posta o nei racconti al bancone del bar. Non sono intriganti, né orrendi, non sono belli, non sono utili e neppure futili. La solita commedia non è. Ci intrappola perché ci riguarda, ci rende tutti tragici difetti di queste nuove realtà che adorano “MessUp” e dimenticano i libri, ci sbircia in quel loop di comunicazione apparente e nella pubblicità mangia-uomo-libero. Ma è la cartilagine di una struttura inconsistente, sempre uguale e già finita. Ennesima accozzaglia del marketing italiano, tanto seguace del disgusto che deplora quanto abile fautrice del medesimo.
Voto della redazione:
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