Il 18 aprile i fratelli McGill ci hanno salutato con un cliffhanger degno di altri tempi: cinico e brutalmente comico. "Better Call Saul" ci lascia col fiato sospeso fino alla terza stagione
Vince Gilligan e Peter Gould nel finale della seconda stagione di Better Call Saul mettono il punto alla vita di Jimmy McGill per prepararci al Saul che abbiamo conosciuto in Breaking Bad.
L’eterna lotta tra i due fratelli che ha assunto le connotazioni di una tragedia (tragicommedia in questo caso) shakespeariana, pare concludersi a favore del fratello più vecchio.
Ma dove eravamo rimasti? Nell’episodio precedente “Nailed”, Jimmy era riuscito a soffiare Mesa Verde alla HHM e riportarla a Kim; il lavoro certosino in copisteria fatto di copia e incolla tutta la notte aveva mandato in frantumi il precario equilibrio mentale di Chuck e a fargli perdere il cliente per un banalissimo “errore” di trascrizione del numero civico di una banca, che per stessa ammissione del fondatore, si definiva “attenta ai dettagli”.
Così lo studio si ritrova fagocitato dai lunghissimi tempi di una burocrazia che, per un semplice scambio di numeri, non può applicare la domanda per l’apertura di una nuova filiale di Mesa Verde e Chuck si ritrova impossibilitato ad accettare l’ipotesi che possa aver commesso uno sbaglio a livello professionale; conosce il suo fratellino e i metodi di cui usa e abusa quando vuole ottenere qualcosa. Si precipita sul luogo del misfatto con Ernesto (l’aiutante, badante che ha preso l’ingrato posto di Jimmy) e, trovandosi di fronte al corrotto (da Jimmy) Lance, il proprietario della copisteria, viene colto da una crisi, batte la testa e sviene.
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In “Klick”, la decima e ultima puntata, Jimmy assiste al tracollo di Chuck, inizialmente come semplice testimone e spettatore della sua vendetta, poi di fronte all’inerzia di Lance ed Ernesto, decide di esporsi mettendo a rischio tutto il suo piano; perché come ci mostrano sempre Gilligan e Gould, soprattutto in questa stagione, Jimmy piega il mondo alla sua volontà ma non lo fa mai con cattiveria se non per seguire le distorte leggi morali che governano il suo pensiero.
Così Kim si ritrova vittima e al contempo complice del comportamento del fidanzato che, come dice Chuck, ricorda Svengali, il personaggio nato dalla penna di George du Maurier e che travia e manipola le persone che dovrebbe invece curare e proteggere. Vittima è pure Howard Hamlin: vittima del padre che l’ha tenuto incatenato al suo studio impedendogli di avviarsi in proprio, e poi della faida tra i fratelli McGill; conflitto iniziato da tempo come ci mostrano i flashback, in questo episodio in particolare assistiamo alla morte della madre dei due che, prima di spirare, porta nel suo ultimo respiro il nome del figlio più piccolo ma noi, come Chuck, non ne conosciamo le motivazioni. Preoccupazione per la sorte di Jimmy o, semplicemente, una predilezione per il secondogenito?
Questo ricordo sommato al fallimento del negozio del padre, l’apprezzamento di sua moglie Rebecca – ne sapremo di più durante la terza stagione? – e l’inspiegabile, per la sua mente estremamente schematizzata e razionale, simpatia che il mondo intero sembra provare per un adorabile venditore di fumo dalla mente sottile e dalla lingua veloce, lo portano a enfatizzare la sua presunta malattia tappezzando la casa con una serie di fogli d’alluminio per renderla una scenografia degna dell’atto finale.
Jimmy incredulo, preoccupato e perplesso prima dalla catatonia in ospedale di Chuck, poi per quella ammissione di resa a un malessere che fondamentalmente è solo vanità ferita da un presunto errore di dattilografia nei documenti Mesa Verde; confesserà tutto il piano al fratello che, per precauzione, ha nascosto un piccolo registratore.
Ora non sappiamo cosa ne farà Chuck di quel nastro considerando che la sua vendetta pare più urgente di quella di Jimmy e sembra viaggiare parallela a quella di Mike con Salamanca, che non si compie per uno strano incidente nel deserto sotto forma di una scritta non è altro che un monito forse per lui o, su un altro livello di narrazione, per i fratelli McGill, e si risolve in una parola “Don’t.”
Better Call Saul in questa stagione non è più l’eco dell’ottimo Breaking Bad, recide i legami col passato, benché i richiami ci siano, per portare sullo schermo una storia sofisticata dove la caratterizzazione dei personaggi prende il sopravvento sull’azione: qui le battaglie si affrontano tra tavoli di Cocobolo e i danni non sono causati dall’abuso di droga ma dall’irrefrenabile voglia di auto sabotarsi per dedicarsi alla distruzione sistematica della propria vita, come nel caso di Jimmy che in “Klick” vediamo oberato di lavoro dagli anziani clienti in attesa di rivalsa contro un sistema fallace.
E allora perché non buttare alle ortiche un futuro luminoso con Kim e a capo di uno studio di successo per continuare l’eterna lotta con Chuck? Chuck paradossalmente, nonostante agisca sempre nei limiti della legalità, è tra i personaggi più odiati della serie, non quanto Skyler in Breaking Bad, ma il suo ego sgonfiato dalla brillante genialità di un fratello che ha studiato legge per corrispondenza, e le turbe psichiche nate da una preferenza (?) dei genitori verso Jimmy a cui tutto hanno sempre perdonato, impediscono di creare un legame affettivo con il personaggio perché fondamentalmente Chuck trova la sua vera dimensione solo quando si tratta di distruggere lo scapestrato fratellino, raccogliendo le simpatie di Gilligan che si dispiace per una figura che lui stesso definisce “danneggiata.”
Il livello di scrittura in queste due ultime puntate, la scena finale scioccante ma al contempo prevedibile, ci fa sperare in positivo per la terza stagione di questa serie che sembra nel pieno della sua parabola ascendente.
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