Recensione di Voyage of Time | Il documentario di Terrence Malick è di una banalità disarmante
Festival di Venezia 2016: ambizioso solo nel titolo, "Voyage of Time" di Terrence Malick si rivela uno sprecato documentario in cui a trionfare, più che una visione autoriale, è piuttosto la risoluzione delle macchine da presa IMAX. Qui la recensione
Il film che non ti aspetti da Terrence Malick, ovvero un banalissimo documentario (il coinvolgimento del National Geographic nella produzione non è casuale) in cui a trionfare non è una volontà autoriale o un’idea di cinema, quanto la semplice potenza delle macchine da presa IMAX. A susseguirsi in scena, delle sequenze che intendono contemplare la bellezza del mondo e della natura, tra animali (sia veri che in cgi), eruzioni vulcaniche, fenomeni naturali e lande selvagge. Tutto colto al massimo della risoluzione possibile, ma senza reale senso di straniamento o meraviglia.
A mancare non è solo un lavoro sulle immagini, ma anche e soprattutto sul montaggio: la concatenazione delle varie sequenze è priva di climax, di ritmo, di effetto, e quindi, automaticamente, di un linguaggio. Proprio lui, il maestro che ci aveva precedentemente dimostrato come riuscire a creare dell'ipnotico pathos attraverso la forma e i tagli, lo spazio e il tempo: e invece, qui di Malick rimane solo il nome, ma non certamente la forza e il virtuosismo lirico. Per questo motivo, persino la voice off di Cate Blanchett (una preghiera poetica - almeno nell'intenzione) non riesce mai ad amalgamarsi e a trovare una sua dimensione all’interno della narrazione, talmente debole e inconsistente è la struttura del film.
[Leggi anche: "Voyage of Time" di Terrence Malick, 2 nuove clip]
Qualcuno potrebbe anche abbandonarsi al flusso e rimanere incantato dalle sequenze, ma lo farebbe con assoluta ingenuità, dato che sono ormai numerosi i docu – sia per il cinema che straight to tv – che hanno esplorato la bellezza del mondo in 4K. Sotto questo punto di vista, rimane decisamente più interessante un’operazione come Human di Yann Arthus-Bertrand (presentato proprio qui al Festival di Venezia l’anno scorso), che dal canto suo, aveva invece compiuto un profondo lavoro di ricerca estetica trasformando le meraviglie del pianeta in astrazione artistica per sottolineare con suggestiva evocazione la cedevolezza dell’uomo di fronte al mondo.
Voto della redazione:
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