Recensione di Under the skin di Jonathan Gazer con Scarlett Johansson - Gelido, silenzioso e demodé, ma al contempo sconfinato e vivo: un'inafferrabile, magnetica odissea
«Scarlett Johansson nuda»: questo il claim trainante di Under the skin, che arriva nelle sale dopo un anno dalla sua presentazione al Festival di Venezia, ma il film di Jonathan Glazer è tutt’altro che gratuito.
Tra un’infatuazione demodé, un eccessivo attaccamento a Kubrick, e peccaminose derive videoartistiche, il regista riesce ad unire elucubrazioni formali ed essenzialità narrativa senza mai mescolarle ma riuscendo a cancellarne i rispettivi confini, e quel corpo imperfetto e retrò si scioglie nella morbida crudezza del suo tocco. La presenza registica costituisce tutto il peso di ogni sequenza: non v’è un solo momento in cui, attraverso il congelare delle immagini, l’autore non reclami la propria presenza, la propria idea iniziale ed il proprio sperimentare.
Ogni momento di Under the skin non eccede rispetto ai propri doveri narrativi, ed al contempo celebra la propria esaltazione formale senza che questa fagociti il tutto. Cineasta asciutto, va avanti per icone e minuscole variazioni attorno alla propria impronta visiva, capace di essere trait d’union coprente la distanza potenzialmente abissale tra le scene improvvisate e quelle completamente orchestrate: così le scene sul furgone e per la strada (in cui realmente Scarlett Johansson carica sconosciuti e si fa aiutare dai passanti mentre cade) sembrano uscite dallo stesso sprazzo mentale dell’incubo visionario patinato bianco-o-nero in cui la protagonista porta le proprie vittime.
La trama è esile e quasi irrisoria, tanto da poter essere riassunta completamente in una manciata di righe, tanto da poter essere considerata un topos aleggiante e poco più. Glazer evita tutte le complicazioni possibili ed evita di spargere aggeggi evocativi: non è David Lynch o Richard Kelly, non gli importa niente delle seghe mentali possibili e, dietro solo apparenti aloni di mistero, porta avanti la sua novella d’educazione sentimentale ed umana lineare e cristallina, fredda e fragile come una struttura di vetro sotto un temporale.
La Scozia, il gelo, la pioggia, la grana delle immagini sono la sbarre attraverso cui spiare tutto ciò.
Innocente, affamato e dagli impulsi basilari come la sua protagonista, l'autore esplora e gioca con le possibilità visive fino alla sazietà, senza mai cadere nell’ingordigia. Il tutto quasi senza nessun dialogo.
Il risultato non è né un cinema nuovo né un cinema astruso, né “concettuale” né di genere, né d’essai né sedicente tale: Under the skin è un gioco di magneti, una danza impercettibile, che cerca un piccolo incanto e non di imporre una teocrazia (formale o contenutistica), ma un giocare lontano anni luce da tutte le farneticazioni possibili ed è ciò a renderlo grande.
La performance di Scarlett Johansson si fa opposta/complementare a quella di Her, quasi come facenti parte di un (per ora breve/schietto) discorso sul gelo sintetico e sul calore inumano: nel film di Spike Jonze erano solo la sua voce e il fantasma cerebrale di un amore inventato - digitale, colorata e spietata farsa, illusione irrisolvibile; in Under the skin è un involucro silenzioso e glaciale predatrice corpo nudo che si scontra con l’inesorabile richiamo dell’essere umani, dello scoprirsi freak. Da una parte il nulla dietro alle coreografie, dall’altra la scoperta della vita a partire dal nulla dell’istinto animale; in Jonze il rovinarsi, in Glazer lo scoprirsi: capoversi differenti di un unico entrare ed uscire dall’esistenza, dalle sue forme, dai suoi teatri.
Voto della redazione:
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