Recensione di Viviane: Il dramma legale di Ronit e Shlomi Elkabetz porta in scena il discriminato ruolo delle donne israeliane e, con una metafora asciutta e ficcante, mostra la spoliazione infida della libertà femminile in generale
Viviane Amsalem è una donna israeliana che ha lasciato il tetto coniugale in attesa dell’annullamento del suo matrimonio. Quando appare per la prima volta sulla scena ha già lottato tre anni in tribunale e ha lo sguardo esausto di chi ne ha persi altri sei di vita. Invisibile, reclusa, discriminata, Viviane esiste, ma in realtà nessuno la vede o l’ascolta. Il suo è un celato mondo di uomini e persino in famiglia c’è chi la guarda soccombere dentro lacrime strozzate, accusandola di non essere una moglie comprensiva. Il marito Elisha, secondo la legge ortodossa, è l’unico che può concederle il divorzio, ma elude ogni sua richiesta rintanandosi nell’assenza, e peggio, trovando il sostegno di tre giudici rabbini per i quali l’afflizione di una donna non è sufficiente a cancellare il matrimonio.
Il processo di Shlomi e Ronit Elkabetz (quest’ultima anche protagonista) è il terzo capitolo di una trilogia iniziata nel 2004 con To Take a Wife e proseguita con Shiva (Seven Days) nel 2008. Racchiuso tutto in un’aula di tribunale, Viviane segue la messa in scena di un Kammerspiel, con i nervi e il cuore della storia scoperti attraverso la fissità della cinepresa. Non ci sono infatti zoom, sguardi o sussurri che non mostrino la sospensione fisica e psicologica nella quale si trova la protagonista: costretta ad accettare ingiustizie a pugni chiusi, a rispettare leggi inique con gli occhi bassi. Viviane è una innocente che sfida il potere (l’incontestabile dedizione alla Torah), ma è soprattutto l’espressione del ruolo di donna, riconosciuto solo nelle sue inefficienze o nell’oltraggio a una Corte di prevaricazioni. Shlomi e Ronit la fanno muovere nella claustrofobia di questo dramma legale (manifesta nell’ultima immagine), spinta dalla sete di una ragione insaziabile, forte come Antigone e stremata come una supplica, mentre inghiottendo prepotenze attacca chi ne è l’artefice.
Viviane è uno scontro di retaggi e di ribellione, di sacro e di profano che si racconta proprio nelle parole soffocate e nei simbolismi, con le soggettive e coi titoli sovraimpressi, utili a scandire lo scorrere infame del tempo. È una storia che esula dal cinema (Gett è il titolo originale che in ebraico esprime la privazione del diritto al divorzio della donna), ma grazie al quale scrive anche una parentesi comica, capace di addentrarsi in quei vicini focolai pronti a deflagrare ogni sovversione democratica, in nome della sacralità religiosa o dell’inviolabile cultura dominante.
Gli sguardi in macchina, le voci fuori campo, la gestualità sono mezzi con i quali i due registi parlano di libertà in catene, inquadrata come un lembo di elemosina, offesa e vituperata persino nella sua morale. Con Viviane siamo tutti chiamati a testimoniare, a guardare la crescente esplosione di rabbia che sin dalla musica e dallo sfondo rosso dei titoli di testa, promette la sua esemplare, fiera e irriducibile rivolta.
Voto della redazione:
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