Recensione di La luce sugli oceani | Sentimentalismo a buon mercato

Non che Derek Cianfrance ci abbia mai convinto totalmente (persino Blue Valentine, ad oggi il suo film migliore, ha delle pecche ben evidenti), ma di certo non ci aspettavamo una discesa così totale e mediocre: La luce sugli oceani è, in tutto e per tutto, un polpettone televisivo che pare concepito apposta per le serate rosa di Canale 5, quelle rassegne patinatissime, lacrimosissime, ma eseguite senza un’idea di cinema che sia una in testa.

E qui, davvero, i pianti procedono spediti senza pausa: la gara è tra Alicia Vikander, Michael Fassbender e Rachel Weisz, sempre lacrimanti qualsiasi cosa stia accadendo, sempre eccessivamente enfatici e fuori controllo. A scivolare via, allora, è ogni possibile climax; piangere per qualsiasi cosa significa mettere tutte le situazioni e i sentimento sullo stesso piano, e ciò equivale a un appiattimento emotivo generale: a un certo punto, le lacrime smettono di toccarci, diventano cheap, come gli stracci a buon mercato che ti sbandierano continuamente in faccia durante le sagre di paese. Cianfrance non è un regista, ma un fastidiosissimo venditore ambulante, di quelli anche maledettamente furbi che tentano di farti sentire in colpa se non gli compri qualcosa: forse qualche signora anziana ci cascherà, qualche turista ingenuo e spaesato, ma non di certo noi che abbiamo passato la nostra esistenza cinefila a scovarli, questi cineasti farlocchi.

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Ad aggiungere il colpo decisivo, infine, è una sceneggiatura dalle svolte più inverosimili, con soluzioni narrative degne di un pocket book Harmony. La luce sugli oceani come fotoromanzo dai colori saturatissimi: i personaggi rimangono lì, sulla carta, senza dimensione o cuore, anima e vita.