Recensione di Frank, con Michael Fassbender, Domnhall Gleeson e Maggie Gyllenhaal: Un'atipica commedia musicale che viaggia tra toni surreali fino a sfondare nella malinconia, sfuggente e ammaliante come il suo protagonista mascherato
Che personaggio magnetico e affascinante Frank, genio della musica o pazzo appena fuggito dal manicomio, un po' robot un po' artista impercettibile, che sotto la maschera nasconde il volto di Michael Fassbender. Poi ci sono gli occhi spaesati di Jon (Domnhall Gleeson), che in verità sono i medesimi nostri quando si ritrova catapultato in una casetta in mezzo al nulla per registrare l'album di debutto del misterioso artista. Tutto questo, mentre il film scorre nella più appartata sobrietà, inaspettatamente distaccato in una perenne aura di lunaticità tra il freak e il weirdo.
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Lenny Abrahamson realizza un coming of age musicale che riesce ad essere divertente senza impegnarsi, ovvero evitando di urlarti addosso; è un regista che preferisce suonare in tonalità basse, eludendo le facili battute, le situazioni più esageratamente euforiche e gli eventuali stereotipi di rockstar mancate (alla Jack Black, tanto per intenderci). Al contrario, preferisce sussurrare piuttosto che strillare, la freddura piuttosto che l'adrenalina, il carisma invece dell'esibita bellezza. È per questo che il film rimane sfuggente fino alla fine, eppure anche così dannatamente toccante nell'iniettarci dosi di malinconia quando meno ce l'aspettiamo. Perché se è vero che il primo tempo della pellicola pare suggerirci una commedia surreale e dal sapore vagamente indie americano, dalla seconda Abrahamson amplifica le sue tematiche arricchendo le possibili evocazioni del racconto. Entra in gioco la possibilità di suonare ad uno dei festival internazionali più importanti, il South by Southwest (assoluto momento di esorcismo collettivo), si svelano i sentimenti celati, scoppia la fama su Twitter, e i personaggi iniziano finalmente a denudarsi fino a scoprirsi completamente allo spettatore, senza più maschere e corazze.
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Il film ci pone, definitivamente, nei bivi esistenziali di un romanzo di formazione, in quello stesso istante in cui capisci di essere grande riconoscendo dolorosamente il tuo posto nel mondo. Che magari è in un locale sperduto in mezzo al nulla, l'unico microcosmo in cui puoi essere te stesso, cercando di aggrapparti all'ultimo bagliore di realtà anche se questa è ormai persa per sempre. La silenziosa catarsi passa attraverso una performance alla Ian Curtis, epilettico e ultimo dei poeti maledetti, mentre noi siamo nuovamente da soli per strada, con una mano sul cuore e senza null'altro se non le sigarette.
Voto della redazione:
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