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Autore Alessandro Guatti :: 10 Marzo 2015

Una breve panoramica sulla tecnica con cui è stato girato "Birdman"

Touch of Evil (Orson Welles, 1958)

Alla luce della recente vittoria agli Oscar 2015 di Alejandro González Iñárritu nella categoria “miglior regia” per Birdman, abbiamo deciso di approfondire un aspetto tecnico dell’opera che ha indubbiamente contribuito alla decisione dei giurati.

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Senza nulla togliere alle altre competenze registiche che Iñárritu ha espresso in questo film, non si può negare che la decisione di girare quasi tutto il film come un unico piano-sequenza - scelta altamente impegnativa dal punto di vista concettuale e stilistico - sia stata giustamente ricompensata dalla giuria degli Oscar.

In un piano-sequenza le maestranze, le comparse, gli attori principali, l’operatore di macchina, il direttore della fotografia e il regista devono essere assai più coordinati rispetto a un film che si avvale del montaggio. Certo, aiuta molto avere a disposizione attori di prim’ordine come Micheal Keaton e Edward Norton, nonché un direttore della fotografia del calibro di Emmanuel Lubezki, che dopo il suo lavoro in The tree of life (Terrence Malick, 2011) e in Gravity (Alfonso Cuaròn, 2013) è ormai una delle risorse tecniche più richieste a Hollywood.

[Leggi anche: Come illuminare un piano sequenza e long takes con movimenti di macchina]

Sgomberiamo subito il campo da un comune malinteso: il piano sequenza non è semplicemente un’inquadratura lunga, per la quale si usa invece il termine long-take. Esso è una tecnica che consiste nel far coincidere una sequenza, ovvero un segmento narrativo autonomo del film, con un’unica inquadratura. In area anglosassone tale tecnica è definita sequence shot. Nel piano-sequenza, dunque, l’inquadratura si apre e si chiude con l’inizio e la fine dell’azione che in essa ha luogo.

Nella storia del cinema ci sono piani-sequenza celeberrimi. Il più famoso è probabilmente quello che apre Touch of evil (L’infernale Quinlan; Orson Welles, 1958), dove il virtuosismo di Welles segue un’auto-bomba dall’istante in cui l’attentatore innesca il timer al momento dell’esplosione. Altri esempi notevoli sono la carrellata di 9 minuti di Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica (Week-end; Jean-Luc Godard, 1967) e la sequenza nel palazzetto dello sport di Omicidio in diretta (Snake Eyes; Brian De Palma, 1998). Registi come Steve McQueen e Michael Haneke sono noti per la loro predilezione per questo tipo di tecnica: pensiamo al piano sequenza di 17 minuti di Hunger (Steve McQueen, 2008) o alle estenuanti inquadrature a camera fissa di Funny Games (Micheal Haneke, 1997).

L’uso del piano-sequenza ha mosso a riflessione alcuni grandi teorici del cinema (in particolare André Bazin), che hanno individuato in questa tecnica e nella profondità di campo le due caratteristiche ideali di un cinema-verità che, escludendo il montaggio e quindi l’intervento esterno sul mondo diegetico delle storie narrate, potesse rendere la realtà per quella che essa effettivamente è.

Un tentativo di portare all’estremo il piano-sequenza è stato messo in atto da Alfred Hitchcock in Nodo alla gola (Rope, 1948): poiché il suo obiettivo era realizzare il film con un unico piano-sequenza ma le bobine della macchina da presa contenevano un metraggio sufficiente a girare inquadrature dalla durata massima di circa dieci minuti, il regista organizzò i movimenti di macchina in modo che al termine della pellicola la macchina da presa si trovasse davanti a una superficie nera quale l’abito di un attore, un armadio o una parete, in modo che l’inquadratura successiva potesse iniziare dallo stesso punto senza che lo spettatore avvertisse lo stacco. Così facendo, Hitchcock ha simulato la continuità temporale pur realizzando il film con otto piani-sequenza consecutivi.

È facile comprendere come l’avvento del digitale abbia permesso di risolvere il problema posto dal limite fisico che ha vincolato la regia hitchcockiana. Ora è davvero possibile girare un intero lungometraggio con un’unica inquadratura. Vi sono diversi film in cui la narrazione è strutturata su un unico piano-sequenza, opere dunque in cui la durata dell’azione coincide con la durata dell’intero film: da ricordare sono sicuramente Arca russa (Русский ковчег; Aleksandr Sokurov, 2002), il colombiano PVC-1 (debutto alla regia di Spiros Stathoulopoulos, 2007), l’urugayano La casa muta (La casa muda; Gustavo Hernández, 2010) e l’italiano  Pianosequenza (Louis Nero, 2005).

Escludendo la cornice apocalittica e l’ultima scena extra-cornice, Birdman è idealmente narrato con un unico piano-sequenza, anche se in realtà non è così, come ci rivela lo scorrere del tempo mostrato spesso in time-lapse tra una sequenza e l’altra.

La novità di Birdman non sta dunque nell’essere girato con la tecnica del piano-sequenza, ma nell’aver usato tale tecnica per rendere a livello visivo due dei grandi temi del film, ovvero il confluire del cinema nei meccanismi narrativi del teatro (dove, ovviamente, non c’è montaggio) e il senso di pedinamento che il protagonista subisce ad opera del suo doppio.

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