"The Look of Silence", toccante documentario sul genocidio indonesiano, è finora uno dei favoriti alla vittoria del Leone d’oro a Venezia e in un’intervista il regista Joshua Oppenheimer ci ha svelato i drammatici retroscena del suo delicato lavoro
Joshua Oppenheimer è uno dei documentaristi più acclamati del momento. Dopo la nomination al premio Oscar per il meraviglioso The Act of Killing, il cineasta statunitense è approdato alla Mostra del Cinema di Venezia per presentare l’unico documentario in concorso, The Look of Silence. Il suo film è insieme a Birdman uno dei più apprezzati dal pubblico e dalla critica, che lo ritiene uno dei favoriti alla vittoria del Leone d’Oro. Noi abbiamo intervistato Joshua Oppenheimer, che ha fatto delle interessanti riflessioni sull’attuale situazione politica indonesiana e sul grande lavoro dietro la realizzazione dei suoi documentari.
Come nasce questo progetto?
The Look of Silence è il primo film che veramente avevo in mente di fare quando sono arrivato in Indonesia. Volevo fare un film sui sopravvissuti al genocidio e su ciò che provavano a convivere con i loro aguzzini, all’ombra della paura. Il mio obiettivo non era fare un film sugli eventi storici ma sui sopravvissuti. Con The Act of Killing ho avuto dei seri problemi nei villaggi, perché sono controllati dall’esercito che intimava le persone a non prendere parte alle riprese del film. Voglio precisare che ho finito di montare The Look of Silence due giorni prima di arrivare a Venezia!
Perché sei andato in Indonesia la prima volta?
All’inizio mi era stato commissionato un documentario sulle piantagioni, sulle condizioni dei lavoratori e su come erano sopravvissuti alla dittatura militare. Ma era un progetto troppo rischioso sia per le donne, che venivano costantemente minacciate, che per i loro cari e per me. Poi è avvenuto il mio incontro con la storia del genocidio e con i sopravvissuti traumatizzati dalla paura. Non sono andato in Indonesia di proposito.
Credi che ci siano le condizioni perché un evento del genere possa ripetersi?
È inevitabile che l’impunità generi il pericolo della violenza. Esisterà sempre finché nessuno riconoscerà ciò che è successo, finché gli uccisori godranno di una posizione di potere. Io credo che il mio film sia più di tutto il ritratto di un vuoto morale, che ha condizionato un’intera società. Quindi non solo c’è il pericolo di un nuovo genocidio ma attualmente i responsabili di quello precedente continuano ad uccidere liberamente migliaia di innocenti.
La cinepresa spesso agisce come strumento di redenzione perché proprio mentre si confidano con te, gli stessi colpevoli fanno i conti con la loro coscienza.
Effettivamente ci sono dei momenti in cui i parenti degli aguzzini si scusano con i familiari delle vittime. Le scene di perdono o di ammissione di colpa sono quelle che ricerco fin dall’inizio. La cinepresa evidenzia come tutti gli aguzzini in realtà si sentano colpevoli e sappiano di aver sbagliato. Il problema è che non osano ammetterlo perfino con se stessi. Si mettono sulla difensiva perché hanno paura della possibilità che si faccia giustizia e del loro stesso senso di colpa.
In The Act of Killing lei è l’unico narratore della storia, com’è stato averne un secondo in The Look of Silence? Quanto ha cambiato il rapporto che lei instaurava con le famiglie locali?
Ha cambiato moltissimo la loro prospettiva perché in Indonesia è impensabile che un familiare di una vittima vada a confrontarsi con il suo aguzzino. Poi le famiglie erano un pochino meno aperte al dialogo e più insospettite.
Lei crede che sarebbe possibile fare un film del genere sugli Stati Uniti?
Credo che tecnicamente non ci sarebbero problemi a realizzare un film sulla politica degli Stati Uniti durante la Guerra Fredda. Sono stati già realizzati dei bellissimi film a riguardo. Credo che però negli USA ci sia una libertà di espressione abbastanza delicata. A me piacerebbe comunque fare un film sull’inpunità negli Stati Uniti d’America.
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