Recensione di Amore, cucina e curry | La ricetta indigesta di Lasse Hallström
Recensione di Amore, cucina e curry di Lasse Hallström. La solita melensaggine firmata dal regista svedese, con una Helen Mirren sprecata
Se c’è una colpa che non si può imputare a Lasse Hallström è quella di deludere le aspettative del pubblico: approcciarsi alle opere del regista svedese significa infatti fare i conti con una ricetta consolidata e priva di sorprese. Il problema sta nel fatto che la ricetta è assai indigesta.
Fanatico della lacrimuccia a tutti i costi, cantore inesausto di storie d’amore e affetti struggenti ma edificanti, destinate inesorabilmente a convergere, presto o tardi, verso il solito happy ending, Hallström affronta senza pudore anche l’ultimo Amore, cucina e curry, in originale The Hundred-Foot Journey (c’è da dire che i distributori italiani sono sempre in prima linea nel peggiorare le cose con i titoli cretini) a colpi di mezzaluna e buoni sentimenti.
La famiglia Kadam ha perso il ristorante di Mumbai (e la madre) a causa di una rivolta popolare – le cui motivazioni sfuggono – e si trasferisce in Europa in cerca di fortuna. Il testardo pater familias (Om Puri) decide di rilevare un locale in un celestiale paesino del Sud della Francia, ma non ha fatto i conti con il dirimpettaio Le Saule Pleureur, il ristorante stellato diretto dall’implacabile Madame Mallory (Helen Mirren).
Innanzitutto, la versione originale pone un grosso interrogativo linguistico: a meno che il Pasolini di Ferrara non abbia fatto scuola, non è chiaro perché Helen Mirren debba interpretare una donna presumibilmente francese che parla in inglese con un accento posticcio, con tutto il suo staff, pure francese. Viene poi da chiedersi quali strane esperienze Hallström abbia fatto dei villaggi francesi, rappresentati dal suo sguardo come piccoli paradisi dalle persiane colorate (vedi anche Chocolat), dove improvvisamente e immotivatamente esplode la violenza razziale verso ogni tipo di diversità, che subito rientra a suon di risate, abbracci e insopportabili inondazioni di volemosebbène. Le ovvietà inanellate sono infinite, dalla contaminazione tra cucina indiana e francese che, naturalmente, porta al risultato ottimale, alla duplice storia d’amore, al mondo dorato degli chef superstar descritto come freddo e inautentico in confronto al genuino calore della famiglia. I personaggi, insopportabili e stereotipati: il piccolo genio indiano, bello, bravo e buono (Manish Dayal), la vedova arcigna che alla fine si scioglie (la Mirren), la francesina bon-ton che sfreccia in bicicletta per i campi (Charlotte Le Bon) e fa innamorare lo straniero con i suoi arricciamenti di naso e i suoi consigli sulla salsa olandese. La sfrontatezza del regista nel dispensare leziosità non ha eguali, arrivando addirittura a utilizzare i fuochi d’artificio della festa nazionale francese del 14 luglio come “originalissimo” sfondo per l’evolversi delle vicende sentimentali e umani: neanche la sequenza dei caminetti in Top Secret arriva a tanto.
Più che piccante e saporito come un buon curry, il film è zuccheroso e stantio come una frittella dolce vecchia di due giorni, irritante e, viste le due ore di durata, anche francamente noioso. E dato che l’unico pregio del film è stimolare l’appetito verso la cucina indiana, meglio spendere tempo, e soldi, per un pollo tikka masala.
Voto della redazione:
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