Recensione di The Hateful Eight | La summa di Quentin Tarantino
Recensione di The Hateful Eight di Quentin Tarantino con Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leight, Tim Roth: con immensa lucidità il regista di "Pulp Fiction" e "Kill Bill" realizza il suo monumento destabilizzante di narrazione pura
The Hateful Eight rappresenta una sorta di apoteosi dell’unico autentico fil rouge della filmografia di Quentin Tarantino: il dialogo, il dialogo sgorgante e seducente, puramente cinematografico fatto non, ovviamente, solo di parole ma delle immagini e del tempo stessi. Ci ritroviamo di fronte a una vera e propria monumentale opera auto-alimentata, una cattedrale destabilizzante di cui ammirare la struttura, i particolari, ritrovando la semplicità apparente dei gesti, dei corpi, dei volti, del ticchettio di una condanna (che è quella della fine del film) rinviata sine die da ogni singola scena finché possiamo.
Tre ore di battute, di tensione, di sfide, di ricerca del colpevole, dove non è tanto l’ironia quanto la capacità di Tarantino di ubriacare filmicamente pur (o, forse, soprattutto) parlando del nulla. Otto(?) personaggi, uno spazio, nessun argomento pregnante: eppure in ogni primo piano, in ogni silenzio, in ogni pavoneggiarsi da cacciatore di taglie qualcosa brilla, perché ci troviamo davanti a narrazione pura, a cinema assoluto. Con Morricone nelle orecchie e La Cosa di John Carpenter (e quindi ancora Morricone) a mente e un impasto da giallo per le mani. Mentre ogni immagine rimanda alla penna che può averla concepita ed invoca quella successiva, in un effluvio narrante/narrativo/narrato liberatorio ed incantevole.
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Quel che con anche i migliori registi è sempre rimasto come “una parte”, per quanto corposa, del realizzare un film, Tarantino ha sempre provato a trasporlo nudo e crudo: The Hateful Eight si spacca letteralmente davanti ai nostri occhi come se la visione stessa combaciasse con l’analisi del film, con l’elemento formale come unico possibile, immaginabile, memorabile. Trama e ordito, schema e ludibrio, l’impatto delle immagini, in un atto violento e magnetico, dove la fisicità e le proporzioni vengono riscritti dal 70mm, dove l’esplorazione è quella dello schermo (e non attraverso lo schermo), dove non c’è emozione veicolata, ma sono le inquadrature ad essere l’emozione stessa.
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Si potrebbe parlare di trionfo della forma, ma con The Hateful Eight abbiamo davanti di qualcosa di estremamente maggiore: la forma è la sostanza, e per esserlo non ha bisogno che del cinema stesso. Come sempre dovrebbe essere, come dovremmo sempre ricordare e sentire. Verrebbe da citare per opposto Mad Max: Fury Road, per il quale vige lo stesso imperativo, ma costituirebbe mettere meccanicità ed umanità a confronto, effetti speciali ed epidermide. Ad unirli la “semplice” capacità di farci vedere, tra miliardi di schermi possibili oggi, quanto una serie di fotogrammi e suoni possa entrare direttamente nella testa senza bisogno d’altro, ed incollarcisi.
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The Hateful Eight è la summa (ma, si badi, non il capolavoro) del suo autore, della (non solo) sua concezione di cinema, dove teoria e pratica si comprimo fino a scomparire nell’inafferrabile sensazione del portento visivo, un film che si vorrebbe assorbire, con la sua immensa lucidità capace di oscurare altre decine di visioni.
Voto della redazione:
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