Recensione di La Notte del Giudizio - Election Year | Lo sfogo più politico di sempre
Recensione di La Notte del Giudizio - Election Year | James DeMonaco prosegue con lo zoom out sulla sua America distopica, servendosi del suo ultimo sfogo annuale per rappresentare e condannare una classe politica corrotta e assetata di sangue
Nel 2013 l'uscita di La Notte del Giudizio nelle sale ha dato inizio ad una terrificante saga capace di mostrare al mondo un universo distopico in grado di sconvolgere e rimanere impresso nella mente, non tanto per le immagini crude, ma per la forte analogia - leggasi condanna - alla violenza della società americana e ai suoi esponenti politici indifferenti ai drammi quotidiani di molti cittadini. Un contesto caricaturale e macabro che pur sviluppandosi in una realtà fittizia, affonda le radici su quelli che sono i veri problemi di un popolo in gran parte ridotto alla povertà, ma soprattutto sempre più spinto verso politiche d'odio.
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La Notte del Giudizio è sostanzialmente il lavoro di un James DeMonaco che punta un obiettivo dall'alto e pian piano lo allontana, mostrando a livello prima microscopico e poi macroscopico gli effetti della sua legge di morte. Se nel primo film della saga veniva esplorato l'impatto dello "sfogo" in un microcosmo casalingo, già con il sequel del 2014, l'occhio della videocamera si era allargato, andando a catturare il caos cittadino su ampia scala e a livello metropolitano. Il capitolo apparentemente conclusivo della trilogia non fa altro che continuare questo zoom out, includendo tra vittime e carnefici anche capi di governo, sacerdoti in preda al delirio mistico e "turisti della morte" arrivati dall'estero per partecipare allo sfogo.
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Concettualmente e strutturalmente questo terzo film è molto simile al suo predecessore. Il mantra si ripete allo stesso modo: personaggi sparsi in vari punti della città che per caso si incontrano e finiscono con il combattere un nemico comune, che siano i semplici esaltati per le strade, i parenti traditori, i ricchi, i potenti o il proprio passato. In questo caso tra i protagonisti figura anche una senatrice, finita nel mirino del governo perché portavoce del malcontento popolare e determinata a vincere le elezioni per mettere fine allo sfogo annuale, dando nuovamente dignità ad un popolo americano dilaniato dalla follia dei nuovi padri fondatori.
DeMonaco non aggiunge molto alla scrittura dal punto di vista narrativo, se non ciò che basta a chiudere la trilogia (o dare l'impressione di averla chiusa) e rendere più appetibile e adrenalinico quello che già avevamo visto in Anarchia. Potrebbe quasi sembrare che Election Year sia strutturalmente il suo doppione, tuttavia oltre allo spettacolo della morte, il terrore della sopravvivenza e la sfilata di luci e maschere grottesche, ciò che differenzia questo ultimo capitolo dagli altri è la schiettezza con cui il sistema politico americano viene nuovamente attaccato e i suoi senatori messi in ridicolo da vicino, proprio con le loro stesse campagne elettorali. Il regista ha dichiarato di aver rappresentato attraverso tre dei suoi personaggi proprio i candidati di spicco alle elezioni presidenziali U.S.A. del 2016, ognuno con le sue promesse, ambizioni, strategie ed inganni. È proprio in questo che Election Year supera i suoi predecessori, nel tentativo di uscire dalla finzione e ritagliare un pezzo di vita vera rintracciabile da chiunque nei giornali o nei notiziari, non più fatta di riferimenti generici, ma di nomi e cognomi.
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Un manifesto caricaturale ed inquietante del male che divora la nostra epoca, un lungometraggio forse debole se preso singolarmente, ma essenziale come pezzo di un percorso che partendo da uno scenario distopico, finisce con l'insinuarsi nel mondo reale, smascherando e mettendo in luce la corruzione, la lotta al potere e l'indifferenza dietro a tante parole.
Voto della redazione:
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