Recensione di Anarchia - La notte del giudizio | Un thriller apocalittico che non ha paura di essere politico
Recensione di Anarchia - La notte del giudizio di James DeMonaco: Il secondo capitolo trova una coesione maggiore del primo e nonostante un uso telefonato della suspense va a segno con un grezzo e sfrontato sottotesto politico
Il regista James DeMonaco con La notte del giudizio aveva firmato uno dei thriller distopici rivelazione della scorsa stagione, con un’idea di fondo notevole e una realizzazione all’altezza, anche se un po’ troppo monocorde e meccanica nella scansione delle singole scene: durante la cosiddetta “notte dello sfogo”, che ricorre a cadenza rigidamente annuale, si provvede all’epurazione di una buona fetta della popolazione per assicurare a chi sopravvive uno stato di disoccupazione ai minimi storici e una florida condizione di stabilità politico-finanziaria. Le strade sono deserte e tutti sono irraggiungibili, mentre una sottospecie di esecutori mascherati, assoldati presumibilmente dai più abbienti, si riversa nelle strade a fare il lavoro sporco. Il primo film, tuttavia, puntava tutto su una dimensione familista cinematograficamente un po’ desueta, soprattutto nell'horror e nel thriller, con Ethan Hawke e i suoi cari asserragliati in casa e la minaccia che incombeva all’esterno. Con uno scarto di discreta sensibilità e intelligenza, questo secondo capitolo rinuncia in massima parte alla claustrofobia - o almeno la trasferisce all’aperto, in strada - e si concentra sulla costruzione sapiente di un’atmosfera malsana ed elettrica, con la giusta dose di tensione e dei volti ordinari che potrebbero essere spazzati via da un momento all’altro senza stupire più di tanto lo spettatore.
L’immedesimazione di chi guarda è dunque al massimo, anche se lo stesso non si può dire dell’efficacia di molti meccanismi di suspense: qua e là infatti il potenziale angosciante della regia di DeMonaco, troppo timida dietro l’obbligo di obbedire a un canone di regia piuttosto normalizzato e conformista, si esaurisce in sequenze telefonate nelle quali la macchina da presa sta sempre dove dovrebbe stare e non si registra alcuna impennata, né di ritmo né di terrore. Una lacuna che però questo thriller all’insegna dell’azione e di un fascino metropolitano da fine del mondo riesce in parte a eludere grazie a un impianto ideologico incentrato sull’accusa d’impronta politica: il mantra ripetuto ironicamente più e più volte (“L’America, un paese risorto”) è infatti il ritornello attraverso cui gli autori, tra i quali possono essere annoverati di gran carriera anche i produttori Jason Blum e Michael Bay, tirano dentro gli Stati Uniti per osteggiarne i falsi miti di progresso, benessere, eguaglianza sociale. Un atteggiamento che non ha naturalmente nulla di serio, ma non è neanche integralmente caciarone: la sensazione che si respira in Anarchia: La notte del giudizio è infatti quella piacevolmente vintage del buon vecchio horror alla John Carpenter e alla George A. Romero, ancora oggi numi tutelari e punti di riferimento imbattili nel genere con la loro sana ambivalenza tra sberleffo e seriosissimo sdegno. In particolare la struttura del film, giocato come se fossimo dentro una costante, ipnotica operazione di avanscoperta, deve moltissimo al regista di 1997: Fuga da New York, del quale intende neanche troppo sottilmente replicare lo spirito grezzo e artigianale unito a un affilato j’accuse di stampo politico. Riuscendoci solo in parte e non andando poi così tanto in profondità rispetto alla media, ma dimostrando, per lo meno, come l’horror contemporaneo, specie quello generoso in quanto a sottotesti e letture sociali, non sia oggigiorno né morto né tantomeno svenuto.
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