Ritratto di Camilla Maccaferri
Autore Camilla Maccaferri :: 6 Maggio 2015

Recensione di Leviathan di Andrei Zvyagintsev. Bellissime ma fredde immagini per descrivere il disagio sociopolitico ed esistenziale di un Paese

« Fa ribollire come pentola il gorgo, fa del mare come un vaso di unguenti. Nessuno sulla terra è pari a lui, fatto per non aver paura. Lo teme ogni essere più altero; egli è il re su tutte le bestie più superbe. »   (Giobbe 40:25-32, 41:1-26)

C’è molta grandezza mostruosa in Leviathan: la grandezza di un Paese come la Russia, un tempo potenza imperiale, ora ridotta dalle sue scelte politiche a scheletro imponente e impotente. La grandezza indifferente e silenziosa di un paesaggio bellissimo e desolato, sconfinato e opprimente, in cui la piccola quotidianità dei protagonisti si perde, ininfluente e inutile di fronte all’immensità.

Facile ravvisare una metafora sociopolitica, invero presente e a tratti anche insistita, nella vicenda del protagonista Kolya, cittandino qualunque, umile meccanico, contento di vivere nella sua bella casa sulle rive del Mare di Barents, disturbato da un rozzo, volgare omuncolo di potere, un sindaco locale, che vuole impadronirsi del terreno e distruggere l’armonia.

Meno immediato, e forse più interessante, è il dramma di un uomo soddisfatto della propria piccola normalità (il lavoro, la famiglia, la casa) che vede il proprio microcosmo, violentemente contrapposto al macrocosmo sociale composto dalla squallida intesa tra potere temporale e secolare, sgretolarsi di giorno in giorno.

Cinematograficamente impressionante, Leviathan soffre di un’eccessiva prolissità e, a tratti, di alcune forzature: se immagini come quella dello scheletro di balena che ispira il titolo sono indubbiamente magnifiche, l’impressione talvolta è quella di una ricerca fredda e calcolata dei quadri più belli. L’indagine della società russa contemporanea con le sue manie e i suoi vizi (la vodka, la corruzione) è  però ben strutturata, così come la discesa negli inferi dei protagonisti, di matrice letteraria elevata (il “bovarismo” della moglie, alla ricerca di ossigeno con il bell’avvocato moscovita, l’impotenza kafkiana di Kolya, vittima degli eventi). La società e le sue istituzioni vengono così inglobate nella carcassa putrescente di un cetaceo, ingombrante e, più che inutile, ostacolo insuperabile per la piccola virtù di un uomo “normale”. Le interpretazioni scarne, intense ma essenziali, del cast contribuiscono ad appesantire ulteriormente l’atmosfera, disegnando sulle facce segnate dal vento, dal lavoro e dall’alcol tutto lo sconforto esistenziale che si centellina prima e dilaga poi.

Premiato per la miglior sceneggiatura a Cannes e Golden Globe come miglior film straniero, Leviathan non è una pellicola per tutti: lento, a tratti vischioso e poco coinvolgente, rappresenta comunque un interessante sguardo su un Paese di cui molto si parla ma poco si sa e sul consumato dramma di un uomo contemporaneo destinato a perdere inesorabilmente lo scontro con il mostro del potere. 

Trailer di Leviathan

Voto della redazione: 

3

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