Recensione di Quin'ai de (Dearest) | Dramma intimo e dolorosissimo, da uno straziante fatto di cronaca
Recensione di Quin'ai de (Dearest) di Peter Ho-Sun Chan: Tragedie del reale in un film cui è impossibile rimanere indifferenti, complice un cast superbo e una regia di serrata tensione emotiva
Il Fuori Concorso della 71esima Mostra del Cinema di Venezia non poteva partire meglio; e anzi, alla fine dell'apnea emozionale in cui ci sommerge il dolorosissimo Quin'ai de (Dearest) del celebrato autore cinese Peter Ho-Sun Chan, ci si domanda legittimamente perché il suo film non sia finito dritto dritto nel Concorso, la sezione che più gli si confà. E nella quale si sarebbe senza alcun dubbio aggiudicato qualche riconoscimento: vuoi in campo attoriale, grazie alle maestose performance di Huang Bo, Lei Hao e soprattutto dell'intensissima e tenace Zhao Wei; vuoi per la regia di Chan, febbrile e serrata quanto partecipe, commossa, ebbra di pathos e di humanitas nei confronti del dramma umano che racconta - o meglio, che traspone su pellicola.
Perché si tratta, purtroppo, di una vicenda tragicamente vera: quella di una coppia di genitori divorziati il cui figlio viene rapito in un disgraziato giorno come tanti. Il travaglio per ritrovare il piccolo Pengpeng sembra infinito, una via crucis che li vede - sempre più lontani nell'amore e sempre più vicini nel dolore - consumarsi (lei si allontana dall'attuale compagno, lui perde la sua attività) e trovare un vago conforto e rifugio nelle famiglie che hanno subìto la medesima sciagura. A un certo punto, però, dopo anni di speranze sventate, raggiri e abbagli, i due lo ritrovano. Ma Pengpeng non è più Pengpeng: ormai è in tutto e per tutto il figlio di un'altra. Una donna di un quartiere contadino, senza istruzione né risorse, di umili origini, ma che lo ama come fosse suo; e che non aveva idea del sequestro.
La questione si aggroviglia, la rabbia e la sofferenza si triplicano, il film ora è bipartito, cambia prospettiva (la protagonista diventa l'inconsapevole moglie del rapitore), da dramma intimo e familiare si allarga ancor più al sociale, si riempie di sfumature e problematicità, poggia la lente d'ingrandimento sulle falle della burocrazia e le fratture delle istituzioni, senza parteggiare per l'una o l'altra "fazione" ma mostrandone, empaticamente, il medesimo conflitto. Chan travolge con delle sequenze di tensione emotiva quasi insostenibile: l'infinita, disperata fuga nei campi, il ricongiungimento temporaneo tra madre e figlia (una scena che, vi assicuriamo, per strazio materno-filiale fa concorrenza a quella di Dumbo!) e la frustrante e frenetica rincorsa sulla strada di un camion da parte dell'intero gruppo di famiglie spezzate, che ben esemplifica la sensazione di girare a vuoto, di rincorrere illusioni e chimere come unica via per non crollare.
Il non-finale di Dearest, arrivato a un punto critico di non ritorno, è un'interruzione laconica e spaesante, un interrogativo che fa male, una sospensione che riafferma il bisogno di chiusura ma che deve rassegnarsi alla sua momentanea impossibilità, alla sua ferita per sempre aperta.
Voto della redazione:
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