Recensione di Whiplash | Il nuovo indie prodotto da Jason Reitman, con un J.K. Simmons spietato direttore d'orchestra, ipnotizza e sorprende il Torino Film Festival
Girato in una ventina di giorni, Whiplash è l'esempio perfetto di come certi autori americani, padroni e abili artigiani del cinema più classico, rispettosi delle canoniche regole narrative e del viaggio dell'eroe, sappiano, proprio per la conoscenza manifatturiera di realizzazione di un film, deviare dai percorsi tracciati dal racconto tradizionale e esplorare nuove vie, sentieri mai tracciati, senza doversi allontanare mai troppo. È ciò che fa l'indie, è ciò che fa Whiplash, raggirare il classico punto di vista per offrire nuove problematiche, nuovi sguardi, nuove possibilità per il cinema. Ed è anche ciò che rappresenta il jazz, fulcro ritmico della storia, variazione allo stesso tempo improvvisata e precisissima dal rock (se non hai talento finirai per suonare in una rockband, recita un foglio appeso in camera del protagonista): Andrew, interpretato dal giovane Miles Teller, è un batterista iscritto in una delle scuole di musica più prestigiose di New York, viene notato dal celebre ed esigente direttore d'orchestra Terence Fletcher (un formidabile J.K. Simmons). L'unico obiettivo di Andrew è quello di diventare un grande professionista come gli idoli Bob Ellis e Buddy Rich, eliminando dalla sua strada tutto ciò che è possibile distrazione dallo studio e dalle prove, compresi l'amicizia e l'amore.
Se all'inizio Whiplash appare come come la scalata al successo di un musicista senza particolari meriti se non quello dell'impegno e della volontà, nel corso degli eventi il film sviluppa un discorso impalbabile e sfuggente, quale è anche la sostanza invisibile della musica, ma anche indipendente dal mondo del jazz e morbosamente intrigante: mettendo in scena un maestro spietato e cinico (e divertentissimo), uso a insultare i suoi studenti e massacrarli psicologicamente, insieme alla tenacia testarda e all'ambizione di un ragazzo, si indaga su quale possa essere il limite per l'abuso di un potere diffuso come quello dell'insegnamento, e il punto di arrivo di una sfida brutale con se stessi e gli altri. Whiplash spinge il suo protagonista dalla passione per la batteria alla cieca competizione, condannando non solo il maestro, ma anche l'allievo, facendone infine coincidere i caratteri; da una parte l'accanimento, dall'altra l'ostinazione.
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Prodotto da uno dei guru dell'american indie, Jason Reitman (Juno, Tra le nuovole, Young Adult), il secondo lungometraggio di Damien Chazelle, classe 1985, già alle prese con la sfera musicale nel precedente Guy and Madeline on a Park Bench, sfrutta bene la sincerità disarmante dei suoi dialoghi in contrasto con l'esuberanza esagerata del direttore Fletcher, ma soprattutto della sua irrisoluta deviazione dalla struttura tipica di una storia di formazione. Whiplash non risponde alle domande che si pone: quanto vale la pena sacrificarsi per la carriera? Quanto può spingersi un insegnante per spronare l'allievo? Qual è il ruolo del lavoro, dell'arte, nei confronti delle relazioni familiari e sentimentali? Come si misura il valore di un uomo? Domande al ritmo irresistibile del jazz.
Voto della redazione:
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