Recensione di Let's Go di Antonietta De Lillo con Luca Musella: un'opera piccola, dallo spirito delicato e non retorico, che affronta il tema della neopovertà con la stessa sincerità e onestà del suo protagonista
È di sicuro delicato, nell’Italia di oggi, provare a fare un cinema che sia allo stesso tempo umano e sociale ma anche col polso saldo e coi piedi ben piantati a terra, che non scantoni in afflati retorici e semplificazioni populiste: due categorie comunicative che purtroppo ci siamo visti costretti a trasformare nel nostro pane quotidiano, almeno per quel che riguarda il racconto della politica. Let’s Go di Antonietta De Lillo, presentato in questi giorni al Torino Film Festival all’interno della sezione “Diritti & Rovesci” curata dal guest director Paolo Virzì, è invece un piccolo, luminoso esempio della possibilità concreta di tornare a raccontare il nostro paese con occhi consapevoli, interessati alla messa in scena di un’umanità, non al suo utilizzo strumentale. Il film della De Lillo, regista da sempre dedita ai mutamenti e alle implicazioni profonde del nostro vivere associati, si limita infatti a dare voce a qualcun altro (un amico, un neopovero, soprattutto un uomo) e chiede in cambio soltanto una dose minima di schiettezza, tale da dare autenticità a una narrazione ridotta e compressa in soli cinquanta minuti.
È così che Luca Musella, fotografo, operatore e scrittore, si ritrova a parlare di sé davanti la macchina da presa, di come la sua vita sia precipitata in una condizione di indigenza e dunque anche di estraneità rispetto a quelli che erano i suoi affetti e le occupazioni quotidiane del suo passato. Alle neopovertà di Luca, che egli stesso analizza con una sincerità disarmante, si associa il neoumanesimo della regista: una corrispondenza totale, che non cede di un millimetro e assicura la tenuta etica del film, legando insieme testimonianze private e discorsi più complessi, ben oltre l’aneddotica.
Musella è lucido anche nel discutere delle proprie illusioni e delle sue speranze, vero cappio mortale, oggi, per quanti sognano di lasciarsi alle spalle quelle paludi che giorno dopo giorno sono lì ad inghiottire il malcapitato di turno. È conscio del fatto che in una società “spenta e frenetica”, come la definisce lui, non si possa ormai fare molto altro che dibattere solo con se stessi allontanando non solo il fastidio del diverso, ma anche la semplice vicinanza dell’altro. Il valore delle parole del protagonista sta tutto nella forma priva di abbellimenti e orpelli con cui si rivolge a se stesso prima che al potenziale spettatore, facendo della propria confessione a cuore aperto uno strumento per un’analisi sociale collettiva e generale. Un respiro che lo sguardo della De Lillo, supportata dalla collaborazione con l’ottimo Giovanni Piperno, coglie e restituisce, approdando a un meraviglioso finale aperto e bellissimo e a Saltimbanchi di Enzo Jannacci, chiusa perfetta (“Saltimbanchi si diventa, se la vita non s’inventa”).
Voto della redazione:
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