Recensione di Blackhat di Michael Mann con Chris Hemsworth e Tang Wei: Un cyberthriller che mette sullo stesso piano le ragioni della mente e quelle del cuore, affidandosi a una messa in scena ancora una volta di dolorosa bellezza
La definizione “ultimo romantico” è tanto suggestiva quanto abusata, ma di sicuro calza a pennello per un regista come Michael Mann e soprattutto per il suo ultimo film, Blackhat, col quale l’autore di Miami Vice si riconferma una delle poche menti del cinema odierno in grado di girare, letteralmente, col cuore. Capace, ora e sempre, di far coesistere come nessun altro il razionalismo dei codici numerici binari, che fanno da catena molecolare al DNA del mondo contemporaneo, e un romanticismo così radicale da regredire al puro sguardo, allo stupore ancestrale di una fuga a due di fianco alla persona amata, a un silenzio assordante in cui a risuonare è solo l’eco dell’esplosione sentimentale. Parafrasando Rudolf Arnheim, quelle di Michael Mann sono le immagini desiderabili del futuro, in cui a prescindere che si giri in pellicola o in digitale (la vera passione numerica di Mann), l’unica cosa che conta è che rimanga costante non solo la rappresentazione di un’immagine, ma anche la memoria di essa.
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E non è un caso che Mann, nel suo film più sinfonico e sperimentale, ci spinga a guardare di più e meglio proprio per farci essere meno immemori e ricordarci di che pasta siamo fatti, dell’umanità che ci attraversa da capo a piedi e della luce elettrizzante che pare illuminare anche i bit. Come gli individui, anche i codici dopotutto hanno un’identità, e riconoscere tale corrispondenza è forse l’unico modo per considerare meno mostruoso ed evanescente il mondo in cui viviamo, riappropriandoci di una sorta di umanizzazione della realtà. Blackhat, sotto la scorza estrema di un cyberthriller stratificato e lirico, parla proprio di questo.
Parla di scelte da fare in frazioni di secondo, atte a renderci tutti più concreti e meno fantasmatici, anche al di là della nostra volontà (“voglio essere il fantasma Casper”, dice il Nick Hathaway di Chris Hemsworth quando si ritrova braccato), di 11/9 quotidiani in cui si muore ogni giorno, di aerei sui quali si consumano terrore e disperazione. Parla di un cinema possibile ma puntualmente rinnegato dai più, che non scinda azione e affezione ma le convogli sotto la stessa ala protettiva. Un cinema che richiede, a tal fine, sacrifici immensi nella gestione delicata di spettacolarità e intimità, due teste di Cerbero sempre pronte ad azzannarsi a vicenda che nel cinema terso e commovente di Mann sembrano però due sorelle gemelle, simbiotiche in tutto e per tutto.
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Il sacrificio più grande, ad ogni modo, l’ha fatto Michael Mann stesso. Alzando ancora l’asticella delle proprie ambizioni antropocentriche, il regista è andato incontro a un prevedibile fiasco commerciale negli Usa, che la dice lunga sulla sordità di certi modelli produttivi. Mann continua tuttavia a riporre assoluta fiducia nelle sue immagini a forma di cuore, a coccolarle, ad ascoltarle, uniche unità di misura lecite per perimetrare quella che si pone come una nuova geografia dei rapporti umani, precipitati senza scampo nel flusso della crisi economica, ma ancorati a una forma ultima di resistenza.
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