Recensione di Fury di David Ayer con Brad Pitt, Shia LaBeouf, Logan Lerman, Michael Peña: l'orrore della guerra e il logorio della non-vita dei soldati tornano a venir rappresentati secondo regola e con decisione, ma senza una visione d'insieme
Arriva in Italia con doppio ritardo, dopo il fallimento della Moviemax e raccolto dalla Lucky Red, Fury di David Ayer, vicenda di un plotone yankee guidato da Brad Pitt.
Regista e sceneggiatore dalle inclinazioni trasversali ma sempre testosteronico (sceneggiatore del primo Fast and Furious e di S.W.A.T.) Ayer prova a tornare agli uomini consumati del suo primo film diretto, Harsh Times – I giorni dell’odio, trasportando il tutto nella Seconda Guerra Mondiale.
Se l’idea dell’uomo-maschio costretto nei meccanismi sistema del tutto logorante in cui il combattere è tutto ciò che possiede (ma di cui non ha il controllo) poteva guadagnare in sfumature nelle ambientazioni urbane e contemporanee, ora trasposto tra le fila dell’esercito americano durante gli ultimi giorni della WWII torna automaticamente al proprio nocciolo, alle linee base del concetto per il quale tutto avviene in odor di morte.
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Fury riesce ad allinearsi perfettamente con i film meno rocamboleschi del regista e con il genere cui appartiene, senza aggiungere particolare risalto: la guerra è guerra punto-e-basta, è oppressione e violenza, è costrizione, perdita della speranza e dell’umanità, è sporcizia e cadaveri. Il film ce lo ricorda di continuo: i personaggi lo ripetono, le situazioni non ricreano altro e il carro armato Fury del titolo ne è rappresentazione semplice e essenziale. L’assenza di una trama – sostanzialmente le squadre avanzano senza meta "fino alla prossima città" – è un vanto, ma l’autore sembra confidare troppo nella sua capacità di particolareggiare (le immagini, definitissime, prima di tutto) e di caricare di disperazione lercia e plumbea il film, dimenticando una visione d’insieme, come se si prendesse troppo sul serio, tenendo l’occhio spalancato sull’annichilimento-trasformazione (fisica e mentale) dell’uomo e sulla violenza dell’atmosfera tutta ma non sul come far girare il tutto davanti a quello dello spettatore.
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Acre e alacre, Ayer si fa ridondante e si ritrova, nonostante le intenzioni, con in mano un manipolo di soldati-stereotipo (il sergente “Wardaddy” Brad Pitt, “Bible” Shia LaBeouf, il novellino “Machine” Logan Lerman, “Coon-Ass” Jon Bernthal, il “Gordo” Michael Peña) dati nelle loro personalità e nei loro soprannomi in un’alternanza di battaglie e momenti di calma che non riesce a riscrivere alcunché o a dare un’ottica di disperazione differente da quelle viste in decenni di cinema bellico. È evidente la ricerca di una spettacolarità (in senso generale) che non sia fine a se stessa, di un atto di onestà, ma Fury ci ricorda, non riuscendoci del tutto, quanto il logorio sia materiale difficile da gestire cinematograficamente. Per questo la scena migliore del film – l’ospitata forzata dalle cugine tedesche – rimane una parentesi notevole all’interno di una irreversibile, predetta, tradizionale marcia verso il nulla.
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Fury è un film smontato ed ovattato: sembra agire per quadri isolati, stantii ed infine poco interessanti, e dalle idee sembra prendere senza restituire troppo, mancando di un guizzo (che non siano i colpi di fucile e di cannone simili a dei laser), di una ricollocazione visiva dei temi trattati, di un’eco.
Voto della redazione:
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