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Autore Giulia Marras :: 26 Agosto 2015
Locandina di Il grande quaderno

Recensione di Il grande quaderno | Tratto dal primo libro della Trilogia della città di K di Ágota Kristóf, il film ungherese è la tragica parabola della perdita dell'infanzia e dell'umanità di due fratelli durante la Seconda Guerra Mondiale

Nonostante una prima uscita in patria e nei circuiti festivalieri nel 2013, ottenendo infatti la candidatura officiale per l'Ungheria agli Oscar 2014, esce finalmente anche in Italia la trasposizione cinematografica del bestseller dell'autrice ungherese firmata dal regista connazionale János Szász.

Il grande quaderno del titolo altro non è che il libro scritto e illustrato senza censure dai due protagonisti gemelli, durante la Seconda Guerra Mondiale, affidati dai genitori alla nonna materna, conosciuta come la Strega. Nessuno ha nome nella città di K, a partire dai fratellini fino ai personaggi secondari, la vicina Labbro Leporino, l'Ufficiale Tedesco, il Vicario, o il Padre e la Madre: si tratta di semplici ruoli narrativi, attanziali, che servono a circostanziare la pura essenza della guerra, vera protagonista in fuoricampo, utilizzando la brutalità del suo stesso linguaggio, razionale ma spietato, inequivocabile e irreversibile, volgare e imperdonabile. Giocando un brutto scherzo, Il grande quaderno assume per tutta la sua durata i contorni di una favola dei Grimm, i quali neanche erano scevri da un certo sadismo, ma se ne divincola costantemente trasfigurandosi in un racconto gotico e grottesco che ha ben poco di metaforico o simbolico.

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Fotografata dalla luce hanekiana del candidato all'Oscar per Il nastro bianco Christian Berger, la parabola violenta, anch'essa non poco hanekiana, dei “figli di cagna”, come li chiama la nonna Strega, è l'immagine-riflesso del romanzo della Kristóf e dello stile di scrittura scelto dai fratellini per il loro grande quaderno: vero e schietto, perché “in guerra le persone si uccidono” e i due non hanno nessuna difficoltà nell'assimilare la lezione involontaria degli adulti, disperatamente incapaci di accudirli.

La loro non sarà quindi una mera sopravvivenza alla guerra, ma un esercizio vitale di addestramento del corpo e dello spirito alla crudeltà, per abituarsi al dolore e infine sconfiggerlo. Il grande quaderno si delinea così come il viaggio universale, spinto dalle atrocità della guerra, nonché dalla facilità ingenua della sua rappresentazione grafica (in questo caso i disegni infantili del diario di guerra), della perdita tragica dell'umanità, nella sua declinazione più brutale che parte dalla privazione dell'infanzia e arriva all'incoscienza dell'atto violento. L'unico appiglio umano rimane il rapporto simbiotico dei due gemelli, i quali interpreti riescono a trovare un perfetto respiro all'unisono di durezza e fragilità.

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Pur portandosi dietro i difetti già letterari della storia, ovvero la concentrazione massiccia di spunti differenti e inapprofonditi (l'omosessualità nell'esercito, l'olocausto, la religione, il tradimento familiare e comunitario), la visione di Un grande quaderno è un'esperienza straniante, sicuramente disturbante, quasi orrorifica, che fa riemergere un prurito inconscio, a volte necessario, dalla memoria storica e collettiva della guerra, che rimbomba in lontananza, nello spazio, nel tempo e nelle generazioni, comprese quelle perdute.

Trailer di Il grande quaderno

Voto della redazione: 

3

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