Recensione di Il condominio dei cuori infranti | Sei fantasmi in cerca di cuore
Recensione di Il condominio dei cuori infranti di Samuel Benchetrit con Michael Pitt, Isabelle Huppert, Valeria Bruni Tedeschi: degrado urbano e cieli grigi, geometrie e retrogusto agrodolce per un'allegoria tratteggiata di ironica malinconia
Con Isabelle Huppert, Michael Pitt e Valeria Bruni Tedeschi, Il condominio dei cuori infranti di Samuel Benchetrit è un trittico favolistico di periferia, un’allegoria dal retrogusto agrodolce puntuale e preciso.
Una palazzina fatiscente, il nulla dell’hinterland abbandonato a se stesso, il cielo e gli interni sempre grigi, pallidi, freddi: un pianeta solitario, un dopoguerra di esistenze sbiadite attonite ed annoiate, apparentemente senza speranza ma che viene raccontato nel suo risollevarsi. Un’umanità che risorge dal cemento: le tre storie declinano tre amori/malumori diversi, appesi al filo del silenzio e dell’immobilità, della calma apparente, di una innocente possibilità di felicità che va raschiata sul fondo. E questo accade tenue, senza rumore, giocando sul limite e sulla soglia dell’immobilità.
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In Il condomino dei cuori infranti avanziamo per piccoli gesti, indecisi passi di cui man mano capiamo la calma e l’impostazione: i personaggi s’affacciano sul dialogo (tra di loro, tra se stessi) ma non l’imboccano del tutto: la parola, come ogni loro scelta, è fatta di pura timidezza polidirezionale, è conteggiata. La donna araba e l’astronauta, l’aspirante fotografo e l’infermiera, l’attrice fallita e il ragazzino: sei fantasmi in cerca di un cuore, un cuore affatto alieno che il film evoca gradualmente, con una sorta di realismo magico fatto tanto di spiritualità che di fisicità, di consustanziazione fiabesca, riscrivendo la noia quotidiana, l’empasse vitale nella prospettiva di un accadimento divino che nasconde in un cigolio simbolico ed emblematico il significato finale dell’intera pellicola.
Ed è difficile scegliere tra le tre coppie improbabili, ognuna intrisa d’una malinconia differente, di un dolciastro spirito naif sfumato di una brillantezza esistenziale dataci nel modo meno greve possibile, con l'ironia a contornare e nutrire passo passo. Nel comporre i quadri fissi del suo piccolo ma sconfinato atollo, Benchetrit riesce a dare un calmo sussulto continuo alle immagini, attraverso geometrie (visive, mentali) a loro modo “tipiche” ci ammansisce e ci accoglie in questa terra di confine di personalità galleggianti e sospese nel vuoto, apparentemente attonite davanti ai limiti e alle costrizioni (routinarie e non) del loro mondo.
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L’astronauta aspetta che i suoi lo vengano a recuperare e la donna con cui non può parlare per le barriere linguistiche, il fotografo obbligato sulla sedia a rotelle e l’infermiera che esiste solo con la sigaretta in mano, l'ex diva e l’adolescente perduto: quasi non esiste altro (due fattoni sul tetto del palazzo e poco più), e la prima affollatissima scena della riunione di condominio con i suoi controcampi inquisitori ci dice tutto, chiudendo una schema a cui non si può domandare altro, autosufficiente nelle sue gradazioni insieme ironiche, nella sua percettibilissima transizione narrativa.
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Il condominio dei cuori infranti – il cui titolo originale, assai più incisivo, è Asphalte – è un piccolo gioiello di composizione e leggerezza, di riscrittura esistenziale, gioco visivo continuo tra un Aldilà e un Aldiquà simbolici, appagante visivamente con le sue galere color cielo e dal cielo color asfalto, con la sua semplicità mai spocchiosa e il suo carattere pacatamente triste.
Voto della redazione:
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