Ritratto di Francesca Borrione
Autore Francesca Borrione :: 14 Maggio 2014

Con Un sapore di ruggine e ossa (2012), il regista francese Jacques Audiard esplora l’estetica dei corpi cinematografici e riassume i contenuti cari al suo cinema, da Sulle mie labbra a Il profeta

una scena di Un sapore di ruggine e ossa

Stan Brakhage sosteneva che i film sono un’avventura sinestesica nella percezione (1970), e non c’è definizione più calzante che possa descrivere De Rouille et d'Os / Un sapore di ruggine e ossa (2012) e il lavoro del suo regista, Jacques Audiard, nel trasformare il corpo dell’attore in un corpo cinematografico ‘senziente’ che oltrepassa lo schermo per coinvolgere i sensi e le emozioni dello spettatore.

Un sapore di ruggine e ossa, ispirato alla raccolta di racconti di Craig Davidson, racconta l’incontro tra persone alla deriva. Stephanie (Marion Cotillard), addestratrice di orche in un parco acquatico, ha perso le gambe in un incidente, e da quel momento vive – o meglio sopravvive – come una creatura inerme, abbandonata in un angolo isolato e buio, come in attesa che qualcosa la tocchi, la prenda, la costringa a portarsi fuori dall’ombra, verso la speranza di una nuova vita. Questa spinta a uscire dallo stato di solitudine e oscurità arriva da Ali (Matthias Schoenaerts), padre distratto che combatte quotidianamente i propri demoni interiori facendo il pugile in incontri clandestini la cui dignità è data solo dal denaro che procurano agli scommettitori. I loro corpi si troveranno nel luogo emozionale della sessualità, ma saranno le loro vite, complesse e disordinate, a dover accettare il passato per incontrarsi nel desiderio e nell’accettazione dell’essere insieme.

Un sapore di ruggine e ossa mette in scena l’estetica dei corpi cinematografici. La chimica della carne che trova una naturale protesi ed estensione nell’altro. Il riconoscimento tra i protagonisti è immediato, violento e sincero. Audiard sposta il focus sui due, sulla loro bellezza inusuale, quasi alienante rispetto a un luogo che sembra ritrarre un’altra realtà. Sullo sfondo vi è una città alla deriva, senza speranza, dove l’umanità marginalizzata vive arrabattandosi alla meglio, come cani randagi in un cortile disabitato. Lo sono un po’ anche i protagonisti, randagi. Il corpo è ciò che li lega a quella vita, nella quale si muovono come possono e come sanno.

Stephanie era legata all’acqua, elemento costante prima e dopo l’incidente che la costringe a una sedia a rotelle. L’acqua come ambiente che annulla le differenze, luogo dell’abbandono, della resa a una forza più grande. Il corpo si annulla in mare, cancella timidezze, disagi, incompatibilità, e accoglie Stephanie come creatura libera e fiera. Un passaggio fondamentale, questo. Il bagno in mare segna la rinascita di Stephanie, il suo battesimo simbolico alla presenza di Ali, la sua estensione fisica ed emotiva.

La storia di Stephanie e Ali è la storia di corpi che si trovano. L’impianto narrativo è tutto volto e teso a raccontare per il tramite dell’immagine e dell’immagine dei personaggi. Sullo sfondo, luci, ombre, primissimi piani, descrizioni d’ambiente che oscillano tra il realismo crudo della vita di strada e la poesia della natura. La vita per eccellenza.

Non potrebbero essere più diversi, questi due giovani che si incontrano nel limbo degli invisibili, alla ricerca di un senso alla vita. Stephanie, un tempo consapevole della propria bellezza e abituata a proporsi all’altro senza inibizioni, deve imparare a riscoprire il proprio corpo e cominciare ad amarsi, ridefinendo se stessa in un mondo indifferente alle debolezze, così ricco di spazi naturali entro i quali immergersi eppure arido di contatti umani. Stephanie vive il corpo come una dimensione nuova, addirittura estranea. Ha bisogno di vivere e di viversi, di trovare l’altro nel terreno del contatto, della percezione, del sentire; si lancia senza paura in cerca di una realtà fisica che sembrava persa ma non lo era davvero.

Ali corrisponde, almeno in superficie, alla persona impermeabile alle emozioni. Ha forse chiuso quella parte di sé nell’angolo più nascosto della propria anima, ed è alla continua ed esasperata ricerca del dolore fisico, per poter sentire, per poter provare qualcosa. Gli incontri di boxe, svolti in strade che la regia di Audiard letteralmente bagna di un sole alto, bianco e insostenibile agli occhi, sono il campo nel quale Ali scommette il proprio istintivo desiderio di vita e di morte.

A differenza di Stephanie, Ali vive tutto sulla superficie netta del proprio corpo. Rifiuta qualsiasi coinvolgimento e utilizza coscientemente se stesso, la propria pelle, per sopravvivere e al tempo stesso per farsi del male, come se il dolore potesse affermare l’esistenza dell’essere ed espiarne i peccati, le colpe, le incapacità e l’inadeguatezza. Ali ostenta la propria prestanza come manifesta una sfacciata indifferenza verso le emozioni, i sentimenti, la passione, gli affetti.

Tuttavia, ogni emozione è vissuta dai personaggi in modo estremamente fisico. Il dolore, la rabbia, l’amore, la morte. Perfino Ali deve soffrire per rendersi conto di cosa abbia davvero valore. Trovarsi nella condizione di salvare il proprio figlio significa compiere per la prima volta un atto d’amore, per sé e per l’altro. Dare significato alla ricerca interiore. Aprire la porta, e sperare.

Un sapore di ruggine e ossa rappresenta un po’ la summa del cinema di Jacques Audiard, e proprio per questo è particolarmente importante, un’opera forse più lineare delle precedenti ma anche più matura. Sono identificabili tutti i temi che hanno contraddistinto la produzione di Audiard degli ultimi dieci anni: il polar come genere privilegiato dal regista (da Sulle mie labbra, a Tutti i battiti del mio cuore, fino alla massima espressione raggiunta con Il profeta), la disabilità come elemento di forza e di riscatto personale (pensiamo alla protagonista sorda di Sulle mie labbra, che riesce a sfruttare la propria condizione come una capacità e a vincere sul mondo dei ‘normali’), il contatto con la controversa realtà sociale, amore e violenza che si stringono in un connubio inscindibile, fino al rapporto filiale –  già aperto dalla tragedia shakespeariana Tutti i battiti del mio cuore e che in Un sapore di ruggine e ossa, per la prima volta, viene descritto attraverso gli occhi del padre in tutte le debolezze, le contraddizioni, le fragilità di un uomo che scava caoticamente dentro di sé alla ricerca di ciò che è giusto. Un sapore di ruggine e ossa chiama a sé i temi cari al regista, che utilizza la tradizione di genere del cinema francese aggiornandola nel proprio personalissimo stile. Gli attori sono corpo cinematografico e mezzo espressivo, carne e sangue, vigore e respiro a sostenere i dialoghi snelli, quasi ossuti, perché tutto è in fronte a noi, nell’immagine, nell’inquadratura stretta e insistente sui dettagli, che indugia nell’esplorazione dell’umanità come terreno e materia per trovare la più profonda motivazione.

Un sapore di ruggine e ossa risponde perfettamente alle teorie di L. Marks (2000) sulla pelle del film: esso rappresenta un’esperienza sinestesica, basata sui sensi e sull’esaltazione della loro rappresentazione e interpretazione cinematografica. Anche il titolo italiano, pur se inconsapevolmente, aggiungendo la parola ‘sapore’ ne esalta proprio questa dimensione.

 

Riferimenti bibliografici

Brakhage, S. (1970), Metafore della visione. Milano: Feltrinelli. [Tr. It. Massimo Bagigalupo].

Dobson, J. (2007), “Asserting Text, Context and Intertext: Jill Forbes and French Film Studies”. In Higbee, W., Leahy, S., eds., Studies in French Cinema: UK Perspectives, 1985-2010. Bristol: Intellect, pp. 115-126.

Marks, L. (2000), The Skin of the Film. Intercultural Cinema, Embodiment, and the Senses. Durham and London: Duke University Press.

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