Recensione di Les beaux jours d’Aranjuez di Wim Wenders | Il 3D e la parola
Recensione di Les beaux jours d’Aranjuez di Wim Wenders | Il nuovo lavoro del regista tedesco, tratto dalla piéce teatrale dell'amico e collaboratore Peter Handke, divide Venezia ma tira a segno una sperimentazione mai raggiunta prima nel suo cinema
Se il mondo delle immagini sta andando a rotoli e se le immagini si stanno ormai autonomizzando sempre più a causa del progresso e della tecnica […] esiste comunque anche un’altra cultura, una controcultura nella quale nulla è cambiato e nulla cambierà: la narrazione scritta di storie, la letteratura, la lettura, la “parola”. Io non credo in molte cose della Bibbia, ma credo comunque profondamente nella frase: “In principio c’era la parola”. E non ritengo che un giorno si dirà: “E alla fine ci fu l’immagine…”. La parola rimarrà.
(L’atto di vedere, Wim Wenders)
Wenders riparte dalla parola. Ma nonostante ciò che predisse all’inizio della sua carriera, crede ancora fermamente nell’immagine ed è tra i pochissimi a pensare il 3D per un utilizzo diverso dal solito sensazionalismo hollywoodiano. Già dal precedente Ritorno alla vita sta sperimentando le capacità della stereoscopia per la potenzialità di una maggiore profondità di linguaggio e per la possibilità prima proibita di inclusione dello spettatore all’interno del quadro cinematografico. “Il 3D è una tecnologia gentile, delicata” ha detto il regista tedesco in conferenza stampa, “non penso di aver mai raggiunto quella dolcezza, quella pace senza il 3D”. Così il cinema può diventare lo spazio di immersione per eccellenza, dove lo schermo non è più un piatto di riflesso, ma letteralmente uno spazio esplorabile, un ambiente da vivere. Con The Beautiful Days of Aranjuez Wenders mette in scena la parola, nella forma della pièce teatrale dell’amico e fidato collaboratore degli inizi Peter Handke, in un palcoscenico naturale nella campagna francese, con pochi fondamentali oggetti di scenografia (una mela, un jukebox, una macchina da scrivere), suoni semplici (cinguettii, il girovagare di un cane) e movimenti calcolati (cambi improvvisi degli abiti di scena) che acuiscono oltremodo la profondità di un’azione volutamente statica e minimale.
In The Beautiful Days of Aranjuez prende luogo l’immediata rappresentazione – o emanazione, perché qui come non mai il cinema è il linguaggio del sogno – dell’immaginazione di uno scrittore, in un continuo scambio di testimone e di diverse realtà che si intrecciano; anche quella della colonna sonora è una realtà a sé, affidata talvolta a un jukebox che suona rock anni ’70 e improvvisamente al pianoforte di Nick con un cameo epifanico in cui suona dal vivo Into my arms, poi si mette a guardare insieme la rappresentazione insieme agli spettatori.
Oh, it's such a perfect day
I'm glad I spent it with you
Oh, such a perfect day
Un dialogo tra un uomo e una donna in uno spazio “fuori dal” tempo, disabitato dal resto del mondo; la riflessione non avviene qui a livello di sguardi, panoramiche, o dei puri standard cinematografici, ma attraverso il desiderio raccontato di comunicabilità, l’inseguimento di storie, descrizioni, sensazioni solamente evocate dalle parole dei due protagonisti. Una riflessione destinata a rimanere irrisolta, come lo sono le differenze tra i sessi che qui monopolizzano il discorso, come hanno fatto con la Storia; un parlare di fantasmi, silhouette del passato che possono tornare solo nella forma del ricordo. “Non è un giorno per indovinelli” dice la donna senza nome; è un giorno, e un cinema, dedicato alla narrazione, a quelle “parole che possono essere perdonate solo in un giorno d’estate”. E, come scrive Schiller in Don Carlos, “i bei giorni ad Aranjuez sono destinati a finire”. La finzione stessa è destinata a svanire in una marea di pixel, come nell’ultimo fotogramma da un dipinto di Cezanne.
Prodotto da Paulo Branco dopo una lunga separazione, Wim Wenders, che per la prima volta utilizza il francese come lingua principale, non è mai stato più portoghese di così: il cinema francese, soprattutto Rohmer, non è lontano, ma la grazia e il respiro sono gli stessi di De Oliveira.
Voto della redazione:
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