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Autore Pierre Hombrebueno :: 8 Settembre 2015
A Bigger Splash

Recensione di A Bigger Splash: dopo Io sono l'amore, Guadagnino conferma ancora una volta di essere un regista estraneo al cinema italiano medio, uno che lavora seriamente sulla potenzialità delle immagini, a costo di esagerare e far storcere il naso

In un panorama cinematografico come quello del cinema italiano medio, in cui tutti sembrano girare in maniera uguale per raccontare le medesime cose coi medesimi attori e il medesimo stile, il cinema di Luca Guadagnino arriva ancora una volta come un fulmine a ciel sereno. Sarà anche la presenza di un cast internazionale che comprende Tilda Swinton, Ralph Fiennes e Dakota Johnson, ma A Bigger Splash non sembrerebbe veramente avere nulla di italiano se non le splendide location di Pantelleria: palesemente, il cineasta guarda ad altri modelli estetici, allontanandosi dalla monotonia tricolore con un approccio che, una volta tanto, lavora veramente sulla potenzialità delle immagini e sul dinamismo del montaggio, a costo di strafare e perdere la bussola.

Già in Io sono l’amore aveva dimostrato di avere uno sguardo particolare, ma qui amplifica ulteriormente la dose con delle aggressioni formali non necessariamente virtuosistiche, ma certamente efficaci nel catalizzare l’attenzione degli spettatori: si susseguono veloci inserti, inattesi movimenti di macchina ed epilettici stacchi di editing, a volte casuali e a volte particolarmente funzionali nel dipingere un mood di ansia e turbamento. Come un disturbatore indesiderato, la cinepresa del regista si tuffa nella quiete dei paesaggi per rompere gli equilibri dell’happening, insinuandosi inesorabile come il serpente nell'Eden. La patina rimane in primo piano, ma a venire a galla è anche lo scombussolante passato: la vita da rockstar scatenata che credevi di esserti ormai lasciato indietro, un precedente amore che pensavi finito, il maledetto giorno in cui hai cercato di toglierti la vita. 

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Giocando di rapidi flashback e inquadrandola come una Dea, Guadagnino regala alla Swinton un nuovo ruolo iconico: farla stare muta per tre quarti di pellicola è una precisa e funzionale scelta, in quanto valorizza poi al meglio le sue urla nell’ultimo tempo. Ad aggiungersi nel quadro, uno scatenatissimo Fiennes che canta, balla, si droga e si fa il bagno nudo come fosse un 17enne euforico e sfrenato. Il rischio di soffocare l’opera dietro la corazza estetica è ovviamente sempre forte e tangibile, ma anche stavolta Guadagnino riesce a portare a termine il proprio lavoro tenendo i nostri occhi sullo schermo: la pellicola traballa, si scompiglia e talora si perde, ma oltre ogni possibile critica, la sua è una strada assolutamente da seguire nel cinema italiano.

Voto della redazione: 

3

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