Recensione di Mommy di Xavier Dolan: Il quinto film del giovanissimo genietto canadese è un miracolo, un film di una bellezza visiva ed epidermica, aggressiva, febbrile, commovente fino alla standing ovation
Because, maybe
you're gonna be the one who saves me
And after all, you're my wonderwall.
Pronti, respiro, via: è una visione da cui non si esce indenni Mommy, il quinto film del genietto canadese Xavier Dolan, che tra pochi anni state certi diventerà uno dei più grandi registi sulla faccia della terra (bomba sganciata, ma a ragione, vedrete). Dopo avercelo strappato via dal petto, Dolan scaraventa il suo e il nostro cuore pulsante estasiato oltre l’ostacolo, un tuffo senza paracadute né bombola d’ossigeno possibile: e commuove dopo 10 minuti, con questi due sciroccati sopra le righe, madre e figlio che camminano per strada, lei su taccazzi improponibili e pantaloni a zampa d’elefante che lo rimprovera per le parolacce, lui, demonietto biondo dagli occhi azzurri, che fa le boccacce a una signora a caso al semaforo.
Insultano le cassiere, si fanno sbattere fuori dai taxi, si picchiano, si rincorrono, ballano come matti, si insultano, si ricattano. Lui, Steve, è un adolescente problematico, con pesanti difficoltà relazionali e incline a scoppi di violenza imprevedibili, lei, Diane (ma si firma "Die" con cuoricino sulla ‘i’), è una madre sui generis vagamente sciroccata. Il terzo lato dell’improbabile e dolente triangolo è un’insegnante introversa che si è presa un anno sabbatico (a suo dire, anzi balbettare) e che prima contempla, poi si inserisce quasi naturalmente nel rapporto tra i due, facendosi ago di una bilancia impazzita, tra due poli che si attirano e respingono tragicamente, furiosamente, sfrenatamente.
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Mommy, compresso in un formato 1:1 costringente, focalizza in questo modo genialmente l’attenzione sui personaggi al contempo incastrandoli nella loro relazione ravvicinata – uno schermo a distanza di respiro, di pulsazione, di alito –, che si compone di immagini lacerate rese poetiche da Dolan semplicemente tramite una risaputissima canzone anni ’90 unita a un ragazzo che gioca con un carrello, inglobando una poetica estetizzante in frame semplicissimi.
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Un melò di una bellezza smodata e luminosa, febbrile ed epidermica, girato come durante una corsa a perdifiato; un incanto doloroso e magnifico, meraviglioso e dolorosissimo. Tanto quanto il trio fragorosamente superbo, nel quale le anime che la Dorval e la Clément facevano fremere in due opere precedenti di Dolan (entrambe sia in Jai tué ma mère che in Laurence Anyways) si fondono, si acuiscono. E insieme, tutti e tre, provano furiosamente a sopravvivere, vividi e ardenti, loud like love; perché ecco che, quando siamo finalmente interi, il mondo si apre (letteralmente! Capolavoro), possiamo respirarlo, siamo liberi.
Un film che esonda in attimi tonanti, clamorosamente unici e normali, in un formato che come una cassa toracica e di risonanza si solleva e abbassa, inspira ed espira, gioia e dolore. E poi alla fine bam, una botta truffautiana, una carezza di Lana Del Rey, siamo nell’oggi, un ultimo salto, torniamo vivi.
Un miracolo.
Voto della redazione:
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