Recensione di Transformers 4 - L'era dell'estinzione | Michael Bay come ultimo imperatore dei blockbuster hollywoodiani
Recensione di Transformers 4 – L'era dell'estinzione: Michael Bay guida Mark Whalberg e i robot alieni catapultandoli nell'esagerazione pirotecnica più esplosiva, tra effervescenti deflagrazioni e assoluta tamarraggine
Transformers 4 – L'era dell'estinzione, è senz'altro il film più immensamente iperbolico di Michael Bay, mai così sfrenato e megalomane, ultimo possibile imperatore dei blockbuster hollywoodiani. È qui che si vede la differenza tra un dilettante e uno spaccone: quest'ultimo fa esattamente la stessa cosa del dilettante, però moltiplicato per 100 volte. L'autore di pellicole come Armageddon e Bad Boys paga finalmente il suo pegno al cinema hongkonghese e ambienta parte delle vicende nell'ex colonia britannica, convocando Li Bing Bing e regalandole scene di assoluta tamarraggine, tra inseguimenti in moto e coolness d'alta classe. Il popolo cinese ha risposto facendo diventare Transformers 4 il maggior incasso di sempre in Cina, dopo soli 12 giorni dalla sua uscita. L'esagerazione pirotecnica è proprio quella tipica delle produzioni hongkonghesi anni '90, tra mirabolanti esplosioni e intere megalopoli rase al suolo: c'è di tutto in questa era dell'estinzione, da John Woo a Tsui Hark passando per Emmerich e John McTiernan; Bay li mischia insieme ottenendo un cocktail di proporzioni epiche, tra le vette più alte dell'action odierno. Basti citare la scena con Mark Wahlberg e il nemico appesi ai condizionatori d'aria in caduta libera, o tutte le adrenaliniche sequenze tra i vicoli più commerciali della regione cantonese, qui teatro di guerra fantascientifica e praticamente distrutta a suon di violenti boati. Sullo sfondo, un padre esageratamente protettivo, una figlia dai vestiti troppo sexy e un fidanzato uscito da Abercrombie & Fitch, nuovi protagonisti al posto di Shia LaBeouf: il romanticismo adolescenziale della prima installazione viene accantonato, e al posto suo prende vita un patriottismo familiare tutta a stelle e strisce.
Impossibile contare le esibizioni virtuose di effervescenti deflagrazioni, Michael Bay è così sborone che non si cura nemmeno di nascondere il product placement (da Oakley a Gucci, passando per Lamborghini e Armani), è così sicuro di sé che espande e dilata la pellicola fino a dove è possibile, ignorando l'asciuttezza e la giusta misura. Risultato: ben 165 minuti di durata, quasi 3 ore, di sicuro troppe per un film che fa dello spettacolo il suo unico punto di forza. Un difetto, questo, tipico degli autori narcisisti, incapaci di tagliare al tavolo di montaggio in quanto troppo amanti di ciò che hanno girato, come bambini capricciosi consapevoli di essere prodigi, meticolosi demiurghi di nuovi universi in bilico tra sogno e luna park, grandeur e odore di popcorn. Eppure, glielo perdoniamo anche stavolta, perchè Hollywood è un gioco, e noi ne conosciamo benissimo le regole.
Voto della redazione:
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