Recensione di Wild di Jean-Marc Vallée con Reese Witherspoon e Laura Dern: un film che mescola il biopic della tormentata Cheryl Strayed all'on the road, ma fatica a ritagliarsi un'identità originale e ricorre a qualche soluzione irritante
Cheryl si getta a capofitto nel Pacific Crest Trail: 1600 Km a piedi, il tragitto che congiunge i due confini opposti degli Stati Uniti d’America, quello col Canada e quello con il Messico, dalla California all’Oregon. Una sfida fisica e mentale per una donna che, dopo il naufragio del proprio matrimonio e la morte della madre, seguiti a droghe e promiscuità sessuale senza freni, avverte l’esigenza di mollare tutto e riossigenare la sua vita con un po’ d’aria pura, di ricominciare da zero e di non portare sulle sue spalle alcun peso al di fuori del suo pesantissimo zaino. Un viaggio che la vera Cheryl Strayed sostenne nel 1995 e la cui memoria e documentazione è affidata al libro Wild. From Lost to Found on the Pacific Crest Trail, da cui è tratto il nuovo lavoro di Jean-Marc Vallée, reduce dal successo di Dallas Buyers Club.
[Leggi anche: Trailer: Wild di Vallée, Reese Witherspoon vuole l'Oscar]
Un film che può godere della produzione esecutiva di Reese Witherspoon, che interpreta la protagonista, e sulla sceneggiatura dello scrittore Nick Hornby, ma che è chiamato soprattutto a confrontarsi con modelli di riferimento sterminati e spesso piuttosto recenti, si veda l’analogo Into the Wild di Sean Penn, rispetto al quale il film di Vallée potrebbe porsi come una specie di fotocopia in versione femminile. Sarà forse per il bisogno di un’esplicita diversificazione dai tanti film (e romanzi) gemelli e per affermare un’autonomia che Wild, accanto al classico impianto da road movie con protagonista in fuga dalla società, fa leva su diverse civetterie stilistiche, in molti casi decisamente abusate. A essere ingombrante è in particolar modo il montaggio, pieno di flashback e frammenti onirici, di correlazioni azzardate ed evocazioni sensoriali, che vanno a contrappuntare l’impostazione altrimenti eccessivamente prevedibile e telefonata del film non riuscendo però né a svolgere il compito sperato (una sorta di diario psichico per immagini) né a far risultare il resto più originale.
[Leggi anche: Reese Witherspoon: “Ecco come Wild mi ha cambiato la vita”]
Il fatto che il film sia stato montato a quattro mani, tra cui anche quelle del regista (sotto lo pseudonimo di John Mac McMurphy) non aiuta, ma instaura semmai un concorso di colpa dal quale non si sottrae neanche la scrittura di Hornby, troppo pigra nella scansione delle tappe dell’avventura e indulgente oltre il consentito quando c’è da scendere sul terreno del ricordo a tinte forti.
All’insieme, che solo in pochissime occasioni riesce a rivendicare un briciolo di fascino, non giova nemmeno il temperamento del personaggio principale, tutto d’un pezzo nella sua assoluta sgradevolezza e turbolenza per due terzi di film, che solo nel finale abbraccia la redenzione. Un processo, quest’ultimo, che solo il miglior cinema classico, lavorando sugli archetipi e la loro densità, può rendere accettabile e far apparire perfino inevitabile, ma che qui sembra solo un furbastro salvacondotto.
Voto della redazione:
Altri articoli che possono interessarti
Per condividere o scaricare questo video: TV Animalista
Facebook Comments Box