Recensione di Il fuoco della vendetta - Out of the furnace | Il cinema americano più pigro e già visto
Recensione di Il fuoco della vendetta - Out of the furnace di Scott Cooper con Christian Bale e Woody Harrelson: un'America densa di ombre in cui colpe e peccati sono scontati e prevedibili, e il linguaggio cinematografico si adegua di conseguenza
Russel Baze, interpretato da Christian Bale, lavora in un’acciaieria, ha un forte senso della famiglia e dei legami affettivi, è un uomo con la testa ben piantata sulle spalle, affidabile in tutto e per tutto. Il fratello più piccolo, Rodney Baze jr. (Casey Affleck) è un reduce dall’Iraq, una testa calda su cui non si può contare, che non ne combina una buona, non trova un lavoro, ha smanie autodistruttive e si butta in match di pugilato clandestini senza riuscire a scrollarsi di dosso quella che sembra a tutti gli effetti una maledizione personale. Ad incorniciar le loro esistenze lo scenario di un’America piena di ombre, una nazione operaia colma di problemi e disparità, in cui anche i fratelli sono diversi come il giorno e la notte e potrebbero potenzialmente azzannarsi come cani rabbiosi dalla sera alla mattina, se non scatenare tempeste pure peggiori. Il regista Scott Cooper, già dietro la macchina da presa di Crazy Heart, film che diede l’Oscar a Jeff Bridges, cambia genere e dal tepore del country movie, tutto giocato su senilità e affettuosi acciacchi, si tuffa in una storia nerissima di ordinario degrado. Fin troppo ordinario, nei fatti. Perché Out of the furnace, che con quel titolo evocativo intenderebbe chiamare in causa chissà quale sogno di fuga dalla fabbrica e dal grigiore, in ciò che racconta è troppo risaputo, incredibilmente prevedibile, quasi mai meritevole d’attenzione.
Le psicologie dei personaggi, dal canto loro già non poco grossolane e tagliate con l’accetta, sono alla base di una drammaturgia fredda ed elementare, talmente già vista che si fa fatica a sospendere l’incredulità e ad appassionarsi davvero alle sorti di coloro che sono direttamente coinvolti nella vicenda. C’è Barack Obama in video nei locali, c’è una recitazione urlata, vana e stucchevole, con la quale avremmo fatto i conti altre cento volte in una miriade di film analoghi. C’è il solito Willem Dafoe sottoutilizzato e d’ordinanza, i lividi e i pestaggi, i fucili e le minacce, i topos rimarcati con un pennarello fin troppo didascalico. I rimandi a Il cacciatore di Michael Cimino dovrebbero essere un surplus, ma finiscono solo col porsi come uno scontato link concepito a tavolino in sede di sceneggiatura, che se possibile contribuisce ad amplificare i limiti del film evidenziandone il respiro corto. Quando la soundtrack ricorre a Eddie Vedder, giusto per impreziosire, sai di essere di fronte al colmo di un’iconografia suburbana già satura. Qualche bel passaggio di regia, con una colonna sonora più calibrata e dei movimenti di macchina che incorniciano i personaggi, non basta affatto. Perché Out of the furnace, presentato allo scorso festival di Roma, è solo l’ennesimo film di cui non si sentiva il bisogno, che va ad affollare ancor di più una categoria dell’immaginario cinematografico già inutilmente sovrappopolata.
Voto della redazione:
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