Recensione di These Final Hours | L'ennesima (deboluccia) fine del mondo
Recensione di These Final Hours di Zak Hilditch: Esordio insipido senza infamia e senza lode, che scorre rapido ma incapace di lasciare tracce emotive, complice un cast appiattito
È (di nuovo) la fine del mondo: stavolta mancano 12 ore prima che una catastrofe di fuoco, che procede a ondate nazione dopo nazione, decimi la popolazione e incenerisca l'intero pianeta. L'annuncio del Giorno del Giudizio è ormai logoro (almeno quanto questo sottogenere catastrofico-pre/post 2012), in Australia le città sono lasciate a se stesse, il panorama umano è sconfortante e già apocalittico, tra gente impiccatasi nuda a un lampione e pazzi che imbrattano i muri con le immancabili scritte disperate di addio alla vita, tra suppliche e tentativi di cristallizzare le memorie ("Earth was here"). Nel delirio generale, in mezzo a chi aspetta placido il doomsday facendo un puzzle e chi si sfonda di sesso, droga e sballo sull'orlo della crisi di nervi, il trentenne abborracciato James si trova fra capo e collo una bimbetta incidentalmente separata dal padre, che lo affiancherà in un road movie senza meta definita, mentre il countdown viene scandito lapidariamente dalla sempre puntualissima autoradio.
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La moda del film-finale, da qualche anno quasi epidemica, è passata attraverso svariate incarnazioni, dalla romantic comedy (Cercasi amore per la fine del mondo), a titoli d'autore (4:44 Last Day on Earth di Abel Ferrara), ma è stata soprattutto declinata nella facile salsa del blockbuster che, con i suoi botti artificiali e stordenti, permette di esorcizzare la sempre più inalienabile consapevolezza della nostra finitezza. These Final Hours si inserisce senza troppi imbarazzi nel filone, nella categoria dramma senza eroi, e ha almeno il pregio di una durata così limitata (85 minuti) da non poter fare troppi danni: parte come un trailer scattante che lampeggia la sintesi dello stato della terra e del protagonista, grezzamente abbozzati; poi procede con un timbro ruvido e brusco, vibrante d'allarme, e in questo modo quantomeno si distanzia dai lacrimevoli patimenti inevitabilmente presenti nel piatto (vedasi l'asciutto saluto alla madre), sebbene si limiti soltanto a sfiorare la superficie degli eventi, e caracolli a metà strada sul confine del dramma isterico (la sequenza del party a casa dell'amico).
Ma questa sua natura poco stabile, priva di idee stilistiche e avvolta da una sensazione di insipida evanescenza, con l'aggravante di un cast appiattito sullo sfondo e scolorito come il cielo dell'ultimo giorno, rende l'esordio di Zak Hilditch, presentato al 67esimo Festival di Cannes nella Quinzaine des Réalisateurs, un'opera deboluccia, monca di attrattive permanenti e incapace di lasciar traccia, senza acuti brividi di tensione o percuotenti crescendi emotivi (salvo forse quello all'arrivo da Eunice); e che nel finale, unico momento di interesse visivo, accatasta inesorabilmente un già visto dopo l'altro (è - spoiler alert - insieme la scena finale di Take shelter e ricalco degli amanti nel fuoco di Pompei).
Un film di cui, detta fuori dai denti, non avevamo granché bisogno.
Voto della redazione:
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