Recensione di Latin Lover di Cristina Comencini: il miglior film della regista scivola tra Almodóvar e una pièce teatrale, fa leva su uno strepitoso cast tutto al femminile e, vestendosi del presente, omaggia il cinema italiano che fu
Cristina Comencini è una regista da cui, oggi, poco ci si attende di sorprendente: l’altalenante filmografia sciorina una serie di opere poeticamente incompiute, un ormai leggendario passo falso (Quando la notte) e un sopravvalutato rialzo che la portò addirittura a una nomination all’Oscar (La bestia nel cuore). Per questo, da Latin Lover, sponsorizzato come un allegro sguardo al passato dei mitici interpreti italiani della Dolce Vita, simboli iconici e plasmatori di un immaginario collettivo ormai assurto alla litania nostalgica, con un Francesco Scianna casanovico in b/n sulla locandina, destava qui a bottega più di una perplessità.
Invece Latin Lover è una sorpresa: una piacevolissima sorpresa. Perché prima ancora di essere un commosso (e commovente!) omaggio al cinema italiano che fu (la ghiotta carrellata iniziale in cui Scianna interpreta celebri momenti di nomi come Gassman e Volonté) l'undicesima pellicola della Comencini è un atto d’amore coreograficamente armonioso del dietro le quinte umano, delle grandi donne (le mogli e le figlie) dietro al grande uomo, congiuntura onnipresente e protagonista che traspare però soltanto dalle parole tremanti, dalla grana della fotografia, dai ricordi di celluloide, dai fantasmi del rimpianto e del rimorso.
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Uno spettro dai mille volti e segreti, che infesta e culla ogni inquadratura, adombrando una ronde dal timbro almodovariano e dal sapore (autobiografico) di pièce teatrale, potenziata da una fotografia lussuosa, un ritmo insolitamente brioso e, soprattutto, da un cast squisito. Le regine indiscusse sono la meravigliosa Virna Lisi (a cui il film è giustamente dedicato) e Marisa Paredes, ma preziosissime anche la sempre brava Finocchiaro e la finalmente intensa Valeria Bruni Tedeschi a cui il ruolo di cane bastonato calza a pennello. E ancora: Candela Peña, l’ottimo Lluís Homar (anche lui, come Paredes e Peña, di casa almodovariana, e che non a caso qui si chiama Pedro), e Scianna, che a tratti sembra davvero un divo d’altri tempi. Tutti si palleggiano lo scandirsi degli eventi che defluisce fino a una conclusione protratta, come se la Comencini facesse fatica ad abbandonare i personaggi, e accomiatandosi infine da loro con un frammento onirico da occhi lucidi (protagonista Nadèah, ex cantante dei Nouvelle Vague).
Si poteva osare di più (ad esempio espandere il segmento cinefilo – il western che si appropria della realtà nel momento dell’inseguimento del fotografo è una mosca bianca in tutto il film) ed evitare qualche italianata (il personaggio di Mollà, che tuttavia ha una sua logica contestuale), ma abbiamo un colpo al cuore, e tanto basta.
Voto della redazione:
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