Recensione di Qualcosa di buono di George C. Wolfe: Due ottime prove attoriali in un dramma misurato, senza particolari guizzi né intuizioni ma dignitosamente privo di smancerie pietistiche
Kate ha la tipica - e insidiosa - vita perfetta: un marito bello e passionale, una casa sontuosa, degli amici riverenti, e un gran talento al pianoforte. Quando però si presentano i primi sintomi della SLA, che in poco più di un anno la riducono a una paralisi invalidante, il piano diventa un doloroso ricordo, gli amici voltano le spalle a qualsivoglia comprensione, la casa è fin troppo spaventosamente grande, e le premure da buon samaritano di suo marito allontanano lo slancio d'amore. Non stupisce perciò che la donna voglia avere accanto a sé per aiutarla nella quotidianità una ventenne sbandata, pasticciona, schietta e priva di alcun filtro. Una ragazza che pian piano prenderà su di sé, quasi per osmosi, la sofferenza e i desideri di Kate.
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Se la storia di questa strana coppia vi ricorda qualcosa (oltre a una serie di altri film di genere), è anche perché Qualcosa di buono è stato pubblicizzato come una sorta di versione al femminile di Quasi amici: malattia, rapporto anticonvenzionale, disparità di classe, ideologia, razza e via dicendo. Ma a parte per delle vaghe somiglianze di fondo, il dramma di George C. Wolfe ha poco a che vedere con la commedia francese del 2011.
Al centro di tutto, qui, c'è la tragedia del male degenerativo che risucchia le aspettative, le speranze e il futuro della protagonista mentre parallelamente la nuova conoscenza fa di tutto per autodistruggere le proprie, per poi riuscire a vederle chiaramente e a far riflettere quelle bloccate di Kate. Questo è il parallelo più stimolante messo in campo dal film, che tuttavia sfrutta sporadicamente all'interno della narrazione, preferendo concentrarsi sugli impicci scatenati dalla loro vicinanza prima, e sull'atrocità della malattia poi.
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Wolfe asciuga però la tragedia da rischiose cadute nella spettacolarizzazione pietistica, modulando i toni e dosando scientemente i picchi di disperazione, lasciando che a parlare sia il lavoro sul fisico e sulla voce di una Hilary Swank sempre all'altezza, coadiuvata da una Emmy Rossum in parte. La buona chimica delle due sopperisce a una sceneggiatura senza intuizioni né guizzi che sorpassino lo stereotipo (il tradimento del marito, l'incomunicabilità con i genitori), ma non priva di una carica emotiva che infine trapela, senza eccedere.
Voto della redazione:
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