Recensione di Legend di Brian Helgeland con Tom Hardy, Emily Browning, Taron Egerton: non basta il doppio ruolo di Tom Hardy a risollevare questo ennesimo biopic gangster lineare ed innocuo diretto dallo sceneggiatore di "L.A. Confidential"
Tom Hardy e Tom Hardy: doppio ruolo per l’attore inglese, duplicemente gangster nel ruolo dei gemelli Kray, figure iconiche della criminalità dell’East End degli anni sessanta, ma la guida della mano fin troppo ferma di Brian Helgeland, regista e soprattutto sceneggiatore dalla filmografia nutrita (portano la sua firma L.A. Confidential, Mystic River, Debito di sangue), rende Legend una pellicola innocua.
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Per il suo ritorno alla regia dopo 42 - La vera storia di una leggenda americana del 2013, questi sceglie nuovamente una vicenda biografica, questa volta molto meno pregnante, e nel raccontare dei due boss del crimine opta per una struttura narrativa a prova d’errore, ma anche priva di inventiva. Con Legend ci ritroviamo davanti ad un gangster movie d’impostazione arciclassica, che viaggia su binari collaudatissimi, capaci di essere appaganti come racconto dalla sicura riuscita, forte di punti di riferimento condivisi, ma afflitto da una linearità insoddisfacente nel suo non riuscire a caricare di forza visiva la sua dichiarata semplicità. Il film si ritrova completamente privo di tensione, e tutte le sue particolarità possibili si ritrovano smorzate, slargate, appiattite, generalizzate, stereotipate.
Il problema principale di Legend è il suo anacronismo formale che, in bilico tra basso profilo e sobrietà, ci arriva come una dichiarazione sussurrata e mal scandita, timida. Probabilmente si tratta del tipico prevalere del contenuto, ma in materia di criminalità e biopic coniugati non ci si può accontentare dell’ennesima lista di avvenimenti. Pur senza scomodare il funky del primo Guy Ritchie o lo stesso Hardy di Bronson o ancora la graficità Matthew Vaughn e Paul McGuigan, Legend risulta la solita bozza-wiki parziale e priva di luminosità, di carattere e di caratterizzazione.
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Abbiamo una realizzazione strettamente tecnica inappuntabile e un Tom Hardy raddoppiato che però risulta imponente la metà del solito. Ogni elemento scenografico e cromatico è apprezzabile (anche se la considerazione viene meno se si pensa che il direttore della fotografia Dick Pope ha in curriculum titoli come Turner e The Illusionist – L’illusionista), ma non c’è reazione chimica, non c’è impatto cinematografico: lasso di tempo liofilizzato, montaggio-elenco, interpretazioni cartacee, dramma meccanico, cinema stantio.
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Perché Brian Helgeland sembra proprio non voler sporcarsi le mani (come fece invece in modo esasperato e ancora oggi notevole con il suo film d’esordio registico Payback – La rivincita di Porter) e di Legend si evincono facilmente le intenzioni, ma il filtro della retorica e dello stile lo rendono incapace di suscitare interesse.
Voto della redazione:
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