Recensione di Jackie di Pablo Larraín con Natalie Portman, Greta Gerwig, Peter Sarsgaard: uno scavare per immagini, un vagare frammentato tra sensazioni convergenti che trasforma ed eleva la figura della sua protagonista, al di là di cliché e miti
L’esordio americano di Pablo Larraín è un nuovo pugno nello stomaco, una danza attorno al viso di Natalie Portman cupo ed avvolgente. Lontano dall’essere un blockbuster o un biopic in senso stretto, Jackie ci permette di ri-vivere tutto il cinema dell’autore fino ad oggi in maniera ancora più criptica e fosca.
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Le linee temporali si intrecciano ed è come se ci arrivassero più First Lady, più corpi, più umori, come con fantasmi moltiplicati ed insieme parzialmente nascosti. L’omicidio di JFK, le ore subito seguenti, un’intervista, il funerale e non solo. Chi è Jackie Kennedy? Chi era? Dov’è la sua testa? Jackie è un puzzle che gira attorno ad un primo piano sgranato, attorno ad idee in conflitto, attraversando tristezze combacianti e convergenti. Perché man mano che si avanza nella narrazione, invece che darci “indizi” che portino ad un giudizio o che esprimano, Larraín ci solleva da ogni obbligo e ci lascia vagare in un enigma che trascende dalla realtà (se non per i suoi simboli e le sue icone), con il montaggio che fa levitare le varie Jackie, facendo scivolare una sensazione sull’altra, sbriciolando le aspettative meramente biografiche, resistendo alle tentazioni mitizzanti e alle maschere, scavando nella semplicità del rodersi umano, svelando un carattere la cui maggiore consistenza sono la fragilità e l’incontrollabilità.
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Ruolo sociale, mediatico, affettivo, politico: scissione di sguardi che Larraín racchiude con la forza visiva a cui già ci ha abituato, questa volta potenziata dal viso, dalla fisicità, dalla figura tutta di una protagonista assoluta, solo sottilmente debole, mai del tutto decifrabile, magnetica, affranta. Una delle linee temporali ricrea (con cura maniacale) il documentario televisivo con cui la vera Kennedy accompagnava gli spettatori per le stanze della Casa Bianca: qui usciamo ed entriamo dalla finzione, passando dal bianco e nero del mezzo televisivo ai colori del dietro le quinte, tra il tono ingessato e didascalico del media dell’epoca e gli sguardi d’incoraggiamento e i suggerimenti dell’assistente di Jacqueline, in un rimbalzo cromatico tra realtà e finzione stuzzicante, seducente ed in grado di amplificare lo smarrimento. Questo è solo il più lampante esempio della costruzione segmentata che Larraín utilizza, anche questa volta sovrapponendo gusto ludico-narrativo e dramma. Più volte Jackie si moltiplica davanti agli specchi e, come in una mise en abyme di due superfici riflettenti messe una davanti all’altra, il suo personaggio va, va ovunque e da nessuna parte, diventa semplicemente infinita, insieme spoglia ed incalzata dalle musiche, dalle inquadrature, dai gesti.
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Per quanto si possa avvertire un certo rigore di partenza nella sceneggiatura, la regia di Larraín trasforma una partitura precisa e potenzialmente calligrafica sporcandola, esaltandola, scombinandola tramite le immagini. La grana del suo 16mm non è quella di The Bleeder (visto sempre a Venezia 73), denotativa di un periodo, ma forza integrante della malinconia delle sue inquadrature, tra primi piani insistiti ed un approccio sempre drammatico e teso incollato al corpo di Natalie Portman; claustrale e liberatorio, come se ogni immagine, con la propria malinconia e la sua tossicità imponente scavasse dentro il vuoto creandone di nuovo.
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In queste immagini imperfette e irripetibili possiamo perderci, come in un temporale, in un microscopio, nello shock di un lutto, nella rottura di un sogno (diventato incubo). Non ne usciamo con la figura di una donna, ma con pezzi infinitesimali di umanità, con sussulti di un istante che si rincorrono e si accavallano. Ancora una volta a Larraín interessa stare addosso ai personaggi, addosso all’essere umano, infischiandosene dei giudizi. Vuole stargli vicino da vederne la miseria e la gloria, il capillare segreto di un momento.
Voto della redazione:
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