La scrittrice a colloquio con il regista livornese in occasione dell'uscita in Italia del film "La pazza gioia"
Lunedì 16 maggio, all’Anteo Spazio Cinema di Milano, la giornalista, scrittrice e critica cinematografica Natalia Aspesi ha intervistato Paolo Virzì in occasione dell’uscita nelle sale italiane del suo ultimo film La pazza gioia, appena presentato al festival di Cannes con grandissimo successo di pubblico e critica.
Ecco un riassunto dell’incontro.
Natalia Aspesi: Cosa ti ha spinto ad affrontare il tema della psicopatologia?
Paolo Virzì: È un tema che in sotto-traccia è sempre presente nei miei film, anche se non ne avevo mai dedicato uno espressamente a questo argomento. Nel mio film precedente, Il capitale umano (2013), Valeria Golino interpretava una psicologa. Ultimamente la mia situazione familiare mi ha spinto ad approfondire questa tematica: ho dovuto accompagnare diverse volte mia madre in vari reparti psichiatrici a causa dei suoi problemi di ipercinesi, eccitazione e dipendenza da farmaci. Parlando con la Archibugi (co-sceneggiatrice del film) ho capito che in lei potevo avere una interessante compagna di esplorazione di questo universo.
Abbiamo dunque visitato insieme decine di strutture per cercare di capire come avremmo potuto ricostruire il contesto in cui far muovere le protagoniste della nostra storia. Del resto, il potere taumaturgico della narrazione è ben noto: si parla di healing fiction, storie che curano. È anche un modo di esorcizzare le nostre paure, perché è chiaro che anche solo il termine “malattia mentale” ci spaventa e ci mette in imbarazzo. Gli ospedali psichiatrici e i reparti psichiatrici degli ospedali sono tuttora, nell’immaginario, luoghi tetri, bui, dove le persone malate vengono ammanettate. E nelle nostre visite, alcune delle quali – devo ammetterlo – non erano state autorizzate, abbiamo constatato che esistono davvero posti così. Del resto, pensiamo alla vicenda di Francesco Mastrogiovanni, esempio e simbolo di questa tragica realtà.
[Questa terribile storia è stata recentemente raccontata dallo straordinario, agghiacciante documentario 87 ore di Costanza Quatriglio, n.d.r.].
Tuttavia, nonostante questo aspetto estremo e tragico, non bisogna dimenticare che le strutture psichiatriche e i reparti ospedalieri deputati alle cure psichiatriche sono anche luoghi dove si praticano l’ippoterapia, la musicoterapia, l’arte e la pet-theraphy: con Villa Biondi, che abbiamo popolato di attrici e di vere pazienti provenienti da diverse strutture, ho cercato di raccontare anche questo aspetto, facendo un patchwork dei posti che abbiamo visitato. È una realtà controversa, ricca di luci e ombre, in cui le strutture private sono assai migliori di quelle pubbliche, che assomigliano veramente ai vecchi manicomi.
Natalia Aspesi: Come potresti descrivere il tuo approccio a questa storia, a questa realtà?
Paolo Virzì: Credo che il cinema debba dare emozioni e gratificazione allo spettatore. Non mi interessa semplicemente presentare la fotografia di una realtà che tutti sappiamo essere difficile da guardare e da digerire. Mi interessa il cinema come racconto divertente e interessante, perché così dà modo allo spettatore di collocare la propria storia al di fuori della routine, di ritrovare delle assonanze con il mondo raccontato.
Natalia Aspesi: Nel disegnare il background familiare delle due protagoniste sei partito anche dal recente dibattito sulla famiglia che ha animato l’Italia in occasione dell’approvazione della legge sulle unioni civili?
Paolo Virzì: Certamente. In questi tempi il dibattito sulla famiglia è stato ed è tuttora molto animato, ma si tende a dimenticare che la famiglia può essere anche distruttiva. Già Tolstoj diceva che le famiglie sono generatrici di sofferenza. Entrambe le protagoniste del film sono cresciute in situazioni familiari disastrose, con genitori assenti o incapaci di soddisfare i bisogni delle figlie. Donatella e Beatrice hanno tutto di diverso, sono due donne che hanno un approccio alla vita e persino alla malattia e alla follia totalmente differente. Ma una cosa in comune ce l’hanno: il fatto che da piccole erano chiamate dalle mamme “scemina” e “deficiente”. L’incontro padre-figlia che vediamo nel film (un momento che io ritengo particolarmente bello e importante) dimostra che anche il padre si rivela un disperato, un poveraccio: lui in fondo si vergogna di ciò che le dice dandole i soldi, perché si rende conto di non avere gli strumenti affettivi e culturali, oltre che economici, per aiutare la figlia. Anche in Caterina va in città (2003) il padre era una figura negativa, ipercinetica e ossessiva. Quando scappava, il resto della famiglia soffriva, certo, ma dopo aver buttato fuori il dolore al funerale della zia, stava bene.
Natalia Aspesi: Nel tuo film gli uomini vengono rappresentati come figure negative, alcuni di essi oserei dire “ributtanti”. Secondo te l’uomo è causa o effetto della malattia delle donne?
Paolo Virzì: È vero, gli uomini sono mediamente pessimi nel mio film, anche se ci sono alcune eccezioni come il tassista o il dottore con la barba. Le due protagoniste sono entrambe donne che hanno subìto una deprivazione affettiva familiare notevole, in cui il padre ha avuto un peso importante. Il loro comportamento disfunzionale può essere visto come prodotto di questo ambiente familiare ma non intendo dire che la responsabilità sia esclusivamente della famiglia. Nemmeno Donatella e Beatrice sono creature virtuose, anche se il pubblico è chiaramente empatico con loro.
Natalia Aspesi: Come sei riuscito a far dimagrire così tanto Micaela Ramazzotti?
Paolo Virzì: È stata una sua decisione. Io mi ero limitato a mostrarle delle opere di Egon Schiele per farle capire che tipo di donna avessi in mente per la rappresentazione di Donatella, ma lei mi ha preso alla lettera e ha deciso che voleva trasformare il suo fisico fino ad assomigliare a quel tipo di donna.
Natalia Aspesi: C’è una scena che ho trovato particolarmente bella: quella dell’incontro con i genitori adottivi del bimbo.
Paolo Virzì: Sì, è una scena molto toccante perché parla di comprensione. Comprensione del dolore e dell’amore. Ed è una scena carica di rispetto per la fragilità altrui (di Donatella, del bambino, ma anche della madre adottiva, in fondo). E in più, per tornare al discorso di prima, è una sequenza utile per dimostrare che non è vero che “di mamma ce n’è una sola”. Le critiche che si sono scatenate nel dibattito sociopolitico di questi giorni in merito alla legge appena approvata hanno posto l’accento sui concetti di “madre naturale” e simili. Io ritengo che questa sia una terminologia senza senso. Nemmeno Gesù Cristo era “figlio naturale”!
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