Recensione di "Bright" diretto da David Ayer, con Will Smith e Joel Edgerton. L'ultimo film dell'anno e atteso action fantasy, distribuito contemporanemante in tutto il mondo da Netflix e fino a questo momento il più costoso da essi realizzato
Vi sono i film noiosi, quelli semplicemente fatti male, e poi c'è "Bright", un film così profondamente orribile che probabilmente l’amministrazione Trump potrebbe decidere di renderne obbligatoria per legge la visione, durante le vacanze natalizie. Dal regista di "Suicide Squad" e dallo scrittore di "Victor Frankenstein" , non esattamente due capolavori, arriva un nuovo infernale tassello tale da far sembrare persino i due titoli testè citati, di molti scalini superiori. Un calvario di tedio e di derivativa prevedibilità, che ti fa vedere in una prospettiva più chiara quei precedenti fallimenti. L'unica cosa più prevedibile di questa storia poliziesca dalle ambizioni completamente fallite, è l'idea che in un anno punitivo come il 2017, il peggiore, sarebbe uscito per ultimo. Almeno "The Emoji Movie" era consapevole del fatto che stava mostrando sullo schermo solamente una cazzata; almeno "The Emoji Movie" ha avuto la cortesia di avertela perlomeno infiocchettata, tipo “papillon” per festicciole di bambini.
Un blockbuster da 90 milioni di dollari che può vantare tutto il valore di produzione mostrato in un episodio di "Streghe", ma anche il primo sforzo a medio-alto budget di Netflix il quale inizia con una premessa potenzialmente avvincente che non decollerà mai. La trovata è abbastanza facile da capire anche se non come detto non ingrana mai, seppure possa dover richiedere qualche ulteriore spiegazione: "Bright" è essenzialmente "Training Day" che incontra "Il Signore degli Anelli", ma molto più stupido di quel che suoni. Immaginate, se volete, che la guerra per la Terra di Mezzo sia stato un evento importante nella linea storica reale, e che tutte le varie creature fantastiche che hanno partecipato alle battaglie siano semplicemente finite per essere segregate, una volta che la guerra ebbe termine.
Gli ultimi 2.000 anni si sono svolti più o meno come li conosciamo, ma tutti i tipi di specie magiche sono state relegate ai margini dei nostri libri di storia. La vita moderna di Los Angeles è quasi identica a come è nella vita reale, tranne che gli elfi sono l'uno per cento della popolazione e gli orchi sono la sottoclasse sistematicamente oppressa. Il pigro e presuntuoso rifiuto del film di esplorare più profondamente questa premessa sconcertante, determina che il regista David Ayer non sia disposto a conferire più spazio alla componente strettamente fantasy, per paura che qualsiasi roba da nerd infranga la sua ben documentata infatuazione (o feticismo?) per il L.A.P.D.
Inutile dire che l'unico conflitto che ci possa essere in "Bright" è tra il rischio di arenarsi in uno stereotipato e edulcoratissimo dramma poliziesco a scapito della trama fantastica che gira attorno ad una bacchetta magica,con Ayer che racchiude tutte e due queste nella stessa maniera come già era in parte successa al fallimentare “R.I.P.D.”. Qualcosa come "District 9" per distinguere un chiaro punto di paragone di ben altro livello, dato che lo spunto del film sudafricano non si sente mai come realmente vissuto, dai creatori di “Bright”. Forse sarebbe andata meglio se Ayer avesse riproposto l'approccio finto-documentaristico che aveva saputo portare in "End of Watch", ma il tentativo di coprire i vari registri, nel film porta a un disastro totale.
È raro vedere un film così maldestro da riuscire a generare così tante recensioni negative precedentemente alla sua prima uscita ufficiale, ma "Bright" è in tal senso davvero un lavoro speciale. Come se il goffo crepitio della magia blu che attraversa il logo Netflix non fosse abbastanza un segno di avvertimento, segue la scritta di una compagnia di produzione chiamata "Trigger Warning Entertainment". Non esattamente la premessa migliore persone migliori per fare una metafora sottilmente velata per la violenza razziale dell'America, che inizia con Will Smith che picchia una fata da giardino simile a un roditore e dichiara che "le vite delle fate non contano!" Chiusura, iniziano i titoli di testa.
Smith, in una performance da cani è chiaramente scoraggiato dallo stesso copione, il che potrebbe davvero farti pietà, ovvero che una delle persone di maggior successo al mondo, debba accettare il ruolo di questo Daryl Ward, un tenente che è stato appena schierato in prima linea nelle strade di Los Angeles. Daryl ha avuto la sfortuna di essere in coppia con Nick Jakoby, il primo Orco arruolato nell’L.A.P.D., e pagherà un prezzo salato per il suo ruolo involontario nell’integrazione sociale degli orchi. Nick (interpretato da Joel Edgerton, misericordiosamente irriconoscibile sotto una chiazzata maschera di lattice che lo fa sembrare un sifilitico Navy Seal), è solo un bravo ragazzo che sta facendo la storia.
Intanto, Noomi Rapace avrebbe detto che David Ayer ha creato un “Universo completamente nuovo”, che sembra come '’Training Day’'. Nick non ha mai voluto essere il Jackie Robinson dell’L.A.P.D, ha solo sempre sognato di avere un distintivo. Sfortunatamente, gli orchi lo vedono come un traditore, e gli umani lo vedono come un mostro, quindi Daryl è il suo unico vero contatto verso una graduale accettazione (allarme spoiler: si scopre che l’essere integrato è tutto ciò che conta davvero). I due dovranno forgiare una sorta di fiducia reciproca se solo sperano di sopravvivere alla lunga notte a venire, che inizia quando una chiamata di routine in una casa sfugge al controllo e li fa respingere dei poliziotti razzisti, per proteggere un elfo muto ( Lucy Fry), e cercare di fermare sua sorella (Noomi Rapace) dal richiamare "il signore oscuro" o qualsiasi altra cosa sia.
Sicuramente, "Bright" si aggancia troppo evidentemente a "qualunque cosa" fatta prima. Come se le dinamiche razziali del film non fossero abbastanza deboli - non chiedendosi neppure come i neri si adattino a una storia che ricodifica la loro stessa storia in modo problematico, alle prese con una razza violenta di orchi che sono responsabili della propria sottomissione, perché lo sceneggiatore Max Landis non lo fa mai – mentre la sua mitologia fantasy è ancora meno coerente. Guillermo del Toro mette ad esempio più pensiero in una sola delle sue creature di quanto Landis e Ayer riescano a diffondere per il loro universo attraverso l'interezza di un interminabile sketch da "Funny or Die", dato che ogni tentativo di costruzione del mondo è così debole da sembrare che il film si sta prendendo gioco della propria stessa spensieratezza.
"Gli orchi adorano il death metal!" È il tipo di "cattiva idea" carina, e insopportabilmente banale, che uno sceneggiatore potrebbe usare per iniziare una conversazione sulla creazione di un moderno e ricco mondo fantasy, per non finirne poi alcuno. Ahimè, è paragonabile al corso di un film che potrebbe sì benissimo inventarsi la sua mitologia nel suo procedere, , mentre Landis estrae dal cilindro una profezia economica per spianare le più ingegnose manovre della trama, e invece Ayer perde felicemente metà del suo budget di lavorazione in una luminosa piscina di latte che... uhm... fa qualcosa... per fermare il signore oscuro? O qualsiasi altra cosa sia
La libertà creativa che Netflix assegna ai registi è meravigliosa e merita considerazione, ma "Bright" suggerisce che la supervisione alla costruzione di un film non sia sempre una cosa negativa. Alcune note da parte dello studio possono fare molto. Si spera quindi che la mancanza di supervisione non si traduca in una mancanza di preoccupazione.
A dire il vero, "Bright" è così infelice da essere un invito alle più ciniche valutazioni, e non lasciandoti altra scelta di presumere che il film sia stato contaminato dalla consapevolezza che la maggior parte del suo pubblico lo avrebbe visto sui suoi smartphone o su computer portatili. I film d'azione di Ayer, quando sono fiochi e sciatti come qui, sembrano selvaggiamente fuori posto sullo schermo di un cinema (sono così blandi che quasi ti aspetteresti che “Iron Fist” si presenti) e le scene di dialogo così poco incisive che tendono a ripetere le stesse battute e gli stessi concetti fino alla nausea, come se fossero stati scritte per l’attenzione di un ragazzino multi-tasking che guarda il film in una finestra accanto al porno che sta seguendo in un altra.
Dimenticandosi di catturare l’attenzione, a "Bright" non importa nemmeno se lo stai davvero guardando . Senza esagerazione, lo scambio finale di dialoghi, in questo film è così punitivo per lo spettatore che potresti iniziare a chiederti cosa hai fatto di sbagliato. Ma per favore, se si ha l’intenzione di guardarlo, di vederselo almeno a casa. Il piano di distribuzione del film di Netflix non è chiaro, ma non si può avere un'esperienza peggiore in un cinema se si vedesse "Salò, o i 120 giorni di Sodoma" in 4K.
Il vero problema con "Bright" - o il più reale dei suoi problemi, comunque - è che il danno del film potrebbe durare a lungo dopo che si sono accese le luci (o dopo averti fatto venire ancor maggior voglia di tornare a vedere “Z Nation”) Potenzialmente un oscuro presagio di cose a venire, "Bright" non è solo il peggior film del 2017, potrebbe essere responsabile di molti dei peggiori film del 2018 e oltre. Se questa mossa pagherà – e se Netflix si fortificherà nel suo assalto all'esperienza cinematografica sviluppando all’interno delle proprie logiche produttive film di dimensioni pazzesche, e i quali siano anche semi-consapevolmente ottimizzati per un pubblico disinteressato - allora è difficile immaginare quanto possa essere oscuro il futuro del lungometraggio. Ecco un'indicazione: poco prima che venisse revocato l'embargo sulle revisioni di sceneggiatura di "Bright", Netflix ha annunciato che un sequel di "Bright" è già in lavorazione.
Voto della redazione:
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