Recensione di Buoni a nulla | Il piccolo cinema di Di Gregorio tradisce tutti i suoi limiti
Recension di Buoni a nulla di Gianni Di Gregorio con Marco Marzocca e Valentina Lodovini: Il terzo film di Di Gregorio è il meno riuscito dei lavori dell'attore-regista romano, pieno di momenti sfilacciati e debolezze di scrittura
Fa un cinema minuto ma mai lezioso, Gianni Di Gregorio. Questo è il suo più grande merito, forse. Valeva anche per Pranzo di Ferragosto, autentico caso cinematografico che qualche anno fa sembrò ridare nuova linfa al cinema senile di casa nostra salvo poi rimanere un episodio isolato. E, volendo, pure per il successivo Gianni e le donne, che pure aveva qualche ambizione smaccata e qualche fellinismo in più. Il regista chiude adesso la trilogia con Buoni a nulla, presentato nella sezione Gala del festival di Roma e già in sala: una commedia garbata che guarda con ironia e bonarietà priva di malizia al settore dell’amministrazione pubblica in Italia, dando al buon Gianni la possibilità di gigioneggiare sottotraccia in un altro film piccolo piccolo e pulitissimo, tanto nelle intenzioni quanto nella resa finale. La domanda allora è: fino a che punto il volare basso di Di Gregorio è voluto ed efficace, e quando invece i suoi limiti esulano dall’essere meriti e diventano debolezze vere e proprie? In questo nuovo film, purtroppo, tale meccanismo entra in gioco fin da subito. Perché Di Gregorio forza davvero troppo la sua idea di cinema provinciale e confortevole, dilatando addirittura i dialoghi e le situazioni e producendo un ritmo allentato più per mancanze di sceneggiatura che per necessità espressive.
Ed è così che la freschezza ostentata orgogliosamente anche nella terza età lascia il posto a un immaginario retrò ingenuo e dimenticabile, con personaggi fragili e scenette di poco conto, oscillando tra canovacci allungati ad arte ma senza centrare alcun bersaglio e dei tempi comici fuori sincrono che non riescono non solo a mordere o a incidere, ma nemmeno a divertire. Il film, non sapendo da che parte andare (il finale in tal senso affoga nell’imbarazzo) si rifugia nelle mossette piacione dell’attore-regista provando in tal modo a strappare la sufficienza. Ma questo ripiegamento non fa altro che evidenziare le carenze di un cinema ombelicale, da quartierino.
Di Gregorio è così impegnato ad ammiccare che si dimentica che c’è anche un film da costruire, che lascia per strada qualsiasi implicazione ulteriore perché intende prediligere le scorciatoie, gli umori da favoletta, il buonismo appiccicaticcio. La cosa interessante, tuttavia, è come Di Gregorio prosegua imperterrito e ostinato col suo trasognato personaggio sempre uguale a se stesso mentre intorno il film perde i pezzi e smarrisce se stesso. Un vero esempio di resistenza naif, che non lo assolve ma di sicuro lo rende un ufo così fuori dall’oggi da non somigliare davvero a nient’altro di coevo. Probabilmente il suo unico indiscutibile pregio, che, stringi stringi, rende perfino superfluo e retorico ostinarsi nel dirne male.
Voto della redazione:
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